È DAVVERO LA SCUOLA DI MASSA, QUELLA VOLUTA DALLA RIVOLUZIONE STUDENTESCA DEL ’68, LA CAUSA DEL CALO DI QUALITÁ NELL’ISTRUZIONE ITALIANA?

L’istruzione di massa che ha goduto di grande consenso durante la stagione riformista degli anni ’70 ha consentito, fino agli inizi degli anni ’90, l’incremento dei livelli di scolarizzazione della popolazione in modo sensibile. I dati sull’istruzione del rapporto ISTAT per l’anno scolastico 1999/2000 ci dicono che “si riscontra un aumento del livello di scolarizzazione degli italiani che nelle scuole elementari e medie è pari al 100% e nella secondaria nell’ultimo quinquennio il tasso di scolarizzazione passa dall’80% all’84.1%.” Inoltre, aggiunge, che va sottolineato “un sensibile aumento della scolarizzazione producendo un corrispondente innalzamento del livello di istruzione della popolazione giovane e adulta. Vi è un forte aumento tra coloro che possiedono il diploma di maturità ed un conseguente calo di chi invece è in possesso solo della licenza elementare. Facendo un paragone anagrafico i giovani di 20-24 anni il 54% dei ragazzi è diplomato a fronte del  61.7% delle ragazze. Tra gli ultra sessantacinquenni, invece, gli uomini diplomati sono appena l’8.0% e le donne addirittura il 5.5%” (p. 180). Si può facilmente dedurre, quindi, che la scuola di massa abbia contribuito a questo miglioramento del livello di istruzione della popolazione.

Sempre l’ISTAT nel rapporto dell’anno accademico 1993/1994 registra un continuo aumento del numero degli immatricolati all’università, tuttavia, nel rapporto dell’anno accademico 1999/2000, l’ISTAT segnala che le immatricolazioni ai corsi brevi, di recente istituzione, dopo un’iniziale crescita sostenuta, si attestano ad uno stabile +0,6%, mentre la maggior parte degli studenti sceglie i corsi di laurea tradizionali.

Questa flessione inizia a manifestarsi a partire dall’entrata a regime della riforma del sistema di istruzione terziario comunemente noto come quello del 3+2 avviata, a partire dall’anno accademico 2001/2002 da Berlinguer e proseguita prima da Moratti e poi da Gelmini, infatti sempre l’ISTAT segnala che mentre negli anni accademici 1991/1992 e 1993/1994 le immatricolazioni all’università sono in costante crescita in quello del 1999/2000, rispetto a quello precedente si segnala una diminuzione degli iscritti del 4,6%.

A questo si deve aggiungere l’introduzione del numero chiuso nelle università e i test d’ingresso propagandati come la soluzione al sovraffollamento degli atenei che determinano il calo di qualità dei servizi offerti; in realtà queste scelte politiche provocano una flessione nelle iscrizioni, specie alle facoltà di medicina (per l’anno accademico 2011/2012 gli iscritti alla facoltà di medicina sono il 21,7%), che a sua volta produce una diminuzione di medici che va collegata alla progressiva privatizzazione della sanità pubblica con riduzione di assunzione dei medici e aumento degli assistiti per i medici di base. Non c’è dubbio che i servizi offerti sono migliorati e di molto.

Ma la cosiddetta riforma Gelmini ed il riordino degli istituti professionali, dai quali elimina la qualifica di tre anni trasferendola al sistema di Istruzione e formazione professionale (Ifp) facente capo alle regioni (Decreto Interministeriale Miur-Mlps del 15 giugno 2010), determina anche un calo di iscrizioni negli istituti professionali pubblici e statali producendo un notevole taglio di cattedre che si traduce in risparmio per la spesa pubblica. La parola chiave è: risparmio. Sempre l’ISTAT, nel rapporto annuale dell’anno scolastico 2011/2012 infatti, ci dice che “Gli iscritti ai Percorsi triennali di Istruzione e Formazione (Ifp) sono stati 241.620 e poco più di 67 mila gli iscritti del primo anno della Sussidiarietà Integrativa, che si caratterizza come la filiera destinata a intercettare la domanda che prima si rivolgeva esclusivamente ai corsi triennali degli istituti professionali”.

Nei fatti, dunque, si mettono in competizione i due sistemi – quello statale e pubblico e quello regionale – esattamente come accadde con l’introduzione dell’autonomia scolastica a firma di Luigi Berlinguer. Generare divisione e una guerra tra scuole è il miglior modo per rafforzare una politica sull’istruzione che poco ha a che vedere realmente con la qualità dell’istruzione e molto con il consenso politico, segnalo che la gestione del sistema di Istruzione e formazione regionale fa girare parecchi denari, basti dare un’occhiata al capitolo fondazioni e sussidiarietà per avere un’idea più chiara degli interessi economici e politici in campo.

Allora potrebbe essere lecito pensare che non sia stata la scuola democratica (spesso detto con sarcasmo) degli anni ’70 e, quindi, non le proteste del ’68, o l’abolizione della scuola media come propedeutica all’iscrizione al liceo classico del 1962 (pre-rivoluzione sessantottina, perciò) a determinare una riduzione della qualità del livello di istruzione nel sistema scolastico italiano, bensì la sua trasformazione in un’ottica mercantilista iniziata con un governo di centro-sinistra (il primo governo Prodi) e proseguita da tutti gli altri governi che si sono susseguiti per rispondere ad una trasformazione del mercato del lavoro che, come scrive Massimo Bontempelli in L’agonia della scuola italiana (2017), a seguito di una sempre maggiore automazione non ha più bisogno di forza lavoro specializzata e altamente qualificata, bensì di un numero crescente di lavoratori dal basso profilo per cui la scolarizzazione di massa diventa controproducente in quanto l’industria in generale non può più soddisfare le aspettative di lavoratori troppo qualificati diventando necessario per le imprese abbassare le aspettative e i salari. Pertanto diventa necessario abbassare i livelli di qualità dell’istruzione inventandosi da una parte il culto della meritocrazia e dell’innovazione metodologica in sé e per sé.

Perciò, forse l’impulso democratico impresso alla scuola, più che una causa dell’abbassamento del livello di qualità dell’istruzione nella scuola pubblica statale, è un sintomo. La competizione tra scuole avviata con la stagione dell’autonomia scolastica ha trasformato, infatti, ogni istituto in un’azienda che per resistere sul mercato dell’istruzione deve battere la concorrenza offrendo un prodotto sempre più competitivo e, in una società dedita all’intrattenimento e al divertimento, com’è ormai quella odierna, il prodotto più allettante non è certo quello di un’istruzione di qualità che ovviamente implica uno sforzo e impegno personale e autonomo da parte dello studente, piuttosto un titolo di studio immediatamente spendibile sul mercato del lavoro; una specie di buono con cui acquistare un bene scontato al supermercato, da ottenere con il minor sforzo possibile condito da attività divertenti e poco impegnative, ma attraverso le quali gli studenti possano mettersi in mostra e diventare popolari attirando seguito e creando mode da imitare (basti pensare all’introduzione del curriculum dello studente spendibile durante l’esame di stato).

Perciò è diventato essenziale motivare i ragazzi perché la scuola, non istruendo più, deve inventarsi qualcosa che ne stimoli l’interesse, che li attiri a frequentare un istituto anziché un altro. Tuttavia, quando c’è un eccesso di offerta questa diventa inflazionata e poco interessante suscitando la richiesta di ulteriori novità in una spirale infinita.

Pertanto, la scuola, entrando in questa dinamica mercantilista ha perso la sua funzione originaria: istruire i cittadini del futuro. Al contrario essa deve invece soddisfare le richieste del mercato, quindi, deve offrire un prodotto sempre diverso e nuovo a prezzi bassi. Dove il prezzo è l’impegno richiesto ai suoi clienti che vengono perciò attirati dalla promessa di una specie di parco giochi dove il divertimento è assicurato con premio finale: il diploma percepito come un lascia passare per il lavoro che si rivela però essere un terreno di guerra.

Al di là delle promesse, come in ogni pubblicità che si rispetti vende illusioni, la scuola che è ormai un’azienda qualsiasi non può raccontare tutta la verità, ossia che una buona istruzione richiede che lo studente sia parte attiva e che è dunque necessario il suo personale impegno, perché vende fumo e promette ciò che non può garantire: una buona istruzione e allora garantisce il successo formativo, cioè un servizio mediocre per una massa incapace di fare massa critica.

Merito o meritocrazia?

All’idea di scuola democratica appena accennata negli anni ’70 e via via dismessa fa da contrappeso il concetto di meritocrazia che, per altro, si contrappone ed entra in conflitto con quello di merito come veniva precedentemente inteso, ossia le capacità di ciascuno attraverso cui si conquistava un miglioramento nelle proprie condizioni di vita non grazie a nepotismo e raccomandazioni di tipo clientelare, piuttosto grazie al proprio impegno nello studio e conseguenti risultati ottenuti in profitto scolastico e accademico che consentivano di raggiungere buoni livelli di competenza professionale.

Ora, la contrapposizione tra scuola di qualità e scuola inclusiva/democratica deriva anche da un sostanziale travisamento terminologico creato ad arte da chi su questa contrapposizione e questo stravolgimento semantico dei termini ci lucra in termini di propaganda comunicativa veicolando messaggi distorti grazie appunto alla confusione generata dallo stravolgimento dei significati, comunemente accettati, delle parole.

È proprio a causa del capovolgimento semantico delle parole che l’attenzione si è spostata sulla necessità di riprendere il concetto di severità a scuola sostenendo che tutti i problemi sono iniziati con l’idea di scuola democratica e progressista sviluppatasi intorno alle proteste studentesche del ’68 e introdotta con i decreti delegati degli anni ’70 stigmatizzando, in particolare, l’introduzione delle rappresentanze di genitori e studenti, fino allo statuto degli studenti e delle studentesse.

A loro parere, chi sostiene queste tesi, aggiunge anche che questi eventi hanno, inoltre determinato la perdita di autorità da parte dei docenti con progressiva esautorazione del loro ruolo di intellettuali e perdita di prestigio sociale da parte della categoria. Tra l’altro, questi, riconducono tutto ad un approccio ideologico prevalentemente nichilista caratterizzante il PCI e la sinistra progressista in generale. Però, a mio avviso, così non si tiene conto di un dato che a me non sembra proprio secondario e cioè la crescente femminilizzazione della classe docente, questo, per quanto concerne la costante perdita di prestigio sociale della categoria si potrebbe anche configurare, per certi aspetti,  come discriminazione di genere che affligge da sempre il mondo del lavoro e con esso anche il contesto professionale della scuola.

Quanto alla questione attinente alla severità che dovrebbe premiare il merito degli studenti mi pare, invece che con esso si trascuri il concetto di equità senza il quale, più che il merito, si finisce per perpetuare il privilegio di quegli studenti che per appartenenza socio-economico e culturale partono già con vantaggi notevoli rispetto agli studenti meno fortunati e che la scuola del merito condannerebbe a subire ancora, come sempre, la casualità della loro nascita. Il merito dunque trasformato in meritocrazia appunto.

Il merito, dunque, che voleva essere strumento di contrasto alla corruzione delle raccomandazioni e ai privilegi di classe, paradossalmente, diventa legittimazione proprio di quei privilegi grazie a questa confusione generata anche da docenti che, seppur in buona fede, non si accorgono di favorire chi vorrebbero contrastare, per esempio i sostenitori delle prove INVALSI che, nella chiara rappresentazione di queste disuguaglianze ne sovverte colpevolmente il significato indicando i cosiddetti migliori da far confluire in classifiche di “merito” senza mai fornire misure di contrasto alle disuguaglianze sostenendo che non è quello il loro compito e, altrettanto, colpevolmente, lasciano che l’interpretazione di questi dati, peraltro affatto oggettive, come da loro stessi ammesso, venga opportunisticamente distorta da politici e, in parte, dai media a fini propagandistici.

Non a caso ogni anno si mettono a confronto i risultati delle prove INVALSI con quelli degli esami di stato senza specificare sui media la diversa natura di questi due tipi di rilevazioni né spiegare con chiarezza il significato implicito. Al contrario, la comparazione viene usata per accusare i docenti delle commissioni di esami di parzialità e scarsa professionalità indicando l’alto numero di diplomati come indicatore della mancanza di severità nella valutazione espressa. Né mai si evidenzia che quegli stessi docenti durante l’anno scolastico vengono quotidianamente attaccati per un eccesso di severità, quasi a sostenere che la categoria tutta è affetta da schizofrenia per cui in classe i docenti sono dei sadici e in commissione d’esame, anche quando commissari esterni, diventano agnellini. Eppure queste distorsioni interpretative, al limite del ridicolo, non vengono colte nemmeno da chi della categoria fa parte.

Gli esami di stato sono davvero la prova della deriva culturale del paese?

Se poi si confrontano effettivamente i dati dei risultati degli esami di stato in linea diacronica si può osservare che lo scandalo a cui in tanti gridano statisticamente è irrilevante, come indicano appunto i dati ISTAT che, in un arco temporale che va dai primi anni Novanta del secolo scorso agli ultimi esami di stato pre-pandemia, registra differenze lievi, ovvero sia nell’anno scolastico 1991/1992, sia in quello 2018/2019 la percentuale dei diplomati è rispettivamente, del 94,6% (con una differenziazione più marcata tra i diplomati del liceo classico al 98,6% e quelli degli istituti professionali al 91,8%) e il 99,8 dei liceali e il 99,6% degli studenti degli istituti tecnici e professionali, ciò a dimostrazione del fatto che se scandalo vi è questo scandalo andrebbe avanti imperterrito da ben trent’anni. E allora bisognerebbe chiedersi come sia possibile che a fronte di tutti questi diplomi regalati in questi trent’anni i laureati italiani riescano comunque a fare brillanti carriere all’estero.  Non solo, bisognerebbe anche chiedersi come sia possibile che a fronte di tanti diplomi regalati al Sud (perché poi di questo si parla quando si urla allo scandalo), quelli conseguiti al Nord siano invece meritati, specie se i docenti al Nord sono in maggioranza di provenienza meridionale.

L’ISTAT, nel suo rapporto annuale del 20019/2020, però rileva anche un altro dato che mi pare interessante, infatti,  “le ripercussioni sul lavoro giovanile della crisi [economica del 2008, ndr.], in Italia rispetto ad altri paesi europei è stato molto più marcato e il differenziale con l’Europa è quasi raddoppiato, passando dai 16,8 punti del 2008 ai 31 punti del 2014. Dal 2015, l’aumento del tasso di occupazione dei giovani all’uscita dagli studi è più sostenuto rispetto a quello che si registra nella media dei Paesi europei consentendo di osservare una riduzione del divario Italia-Europa. Nonostante l’andamento positivo degli ultimi anni, sia per i diplomati che per i laureati i tassi di occupazione all’uscita dagli studi restano marcatamente bassi, ancora molto inferiori ai livelli pre-crisi e anche il divario con il resto dell’Europa è rimasto molto ampio. L’Italia è infatti penultima tra i Paese dell’Unione per livelli di occupazione dei giovani sia per quanto riguarda gli sbocchi occupazionali dei diplomati che per quanto riguarda quelli dei laureati. Nonostante ciò però il tasso di scolarità e il tasso di conseguimento del diploma sono comparabili a quelli degli altri paesi europei, seppure “la spesa per istruzione del nostro Paese sia più bassa rispetto alla media europea: nel 2018 rappresentava il 3,5% del Pil, contro il 3,9% della media europea (il  4,5% in Francia)”. Magari il problema più che da ricercare nella scuola andrebbe cercato e risolto nel mercato del lavoro italiano, statico e precario.

Le prove INVALSI e le disuguaglianze

Ho già scritto in merito alla fallace comparazione dei dati delle prove INVALSI e quelli derivanti dagli esami di stato, pertanto non mi ripeto in questa sede, ciò che mi sembra rilevante segnalare è che a dispetto della vulgata vi è importante correlazione tra esiti scolastici e provenienza socio-economica e culturale degli studenti, infatti, “la povertà e il disagio sociale sono elementi dirimenti per quanto concerne il risultato scolastico degli studenti, come evidenzia Christopher Tienken, nel suo saggio “Pisa Problems” (2014, p. 6), e una delle ragioni principali che impediscono agli studenti di raggiungere i medesimi risultati dei loro coetanei che per puro caso nascono e crescono in contesti floridi. E si sottolinea che tutto ciò è frutto del «caso» e che il «merito», non c’entra assolutamente niente, come invece vuole farci credere la retorica di sistema. Semmai si potrebbe parlare di merito a parità di condizioni e non è questa affatto la situazione.” 

Infine, a proposito di disuguaglianze quelle più odiose si manifestano nei confronti degli studenti non italofoni perché questi scontano, da una parte, il disagio socio-economico e culturale già messo in luce e, dall’altro quello linguistico a cui la scuola italiana, seppur dotata di norme e linee guide ministeriali volte a ridurlo e superarlo, nei fatti concreti è essa stessa vittima delle innumerevoli inadempienze di cui si macchia lo stato, innanzitutto non provvedendo ad assegnare in organico delle istituzioni scolastiche docenti abilitati all’insegnamento di italiano L2, una figura professionale essenziale per far fronte a quella che è una gravissima discriminazione in spregio ai diritti sanciti da tutte le carte internazionali a difesa dei diritti umani e dei diritti del fanciullo.

Tra l’altro sempre l’ISTAT, nel rapporto dell’anno scolastico 2019/2020, evidenzia che la riduzione di iscrizioni nei primi tre ordini di grado è dovuto al calo demografico, compensato solo dall’aumento degli iscritti con cittadinanza straniera e che questi rappresentano il 10% sul totale degli iscritti. Ma il rapporto ISTAT, dell’anno scolastico 2018/2019 segnala anche che “tra gli stranieri residenti nel nostro paese, i laureati sono l’11% (il 13,6% le donne e l’8,1% tra gli uomini), il 34% è in possesso di un diploma o di una qualifica professionale mentre il restante 55% possiede al massimo il titolo della scuola dell’obbligo”.

Evidentemente il successo formativo per gli studenti non italofoni non è una garanzia, piuttosto una pia dichiarazione d’intenti.

© L. R. Capuana

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