LA VITA BUGIARDA DEGLI ADULTI di E. FERRANTE

La vita bugiarda degli adulti

Edizione e/o, Roma – 2019, pp. 326, € 19,00 – ISBN 978-88-3357—168-3

In Italia spesso accade che intorno ai libri si apra un dibattito un po’ schizofrenico, da una parte si dice che si legge poco e dall’altro, quando un libro diventa best seller, che si tratta di opere commerciali. E’ successo svariate volte in passato e, forse, per quanto riguarda autori donne, la vicenda di Elsa Morante in occasione della pubblicazione de La Storia, è la più emblematica. Capita anche spesso che il valore letterario delle donne, che in Italia scrivono e pubblicano, venga prima riconosciuto all’estero che in patria. Qui, succede, che un’opera letteraria al femminile venga subito bollata come lettura per donne. E’ come se si dicesse che il travaglio femminile, una vicenda che vede come protagonista una donna possa interessare solo un pubblico di donne; al contrario, un romanzo con un protagonista maschile viene accolto senza particolare enfasi sull’appartenenza di genere del suo autore e analizzato per il suo presunto valore universale. Si da per scontato, quindi, che anche le lettrici siano interessate alle vicende maschili, mentre i lettori rimangono indifferenti a quelle femminili. In altri termini, un romanzo che adotta un punto di vista maschile è assunto come universale, e per i critici ha tutte le carte in regola perché si possa ritenere letteratura. Lo stesso non accade per le scrittrici, le cui opere invece sono catalogate come “romanzetti rosa” e così, velocemente, liquidate.

Tuttavia, Elena Ferrante è ormai un caso letterario, almeno dal successo internazionale riscosso con la tetralogia de L’amica geniale, e questo suo ultimo romanzo è stato annunciato con un lancio pubblicitario notevole. Infatti è subito schizzato in cima alle classifiche dei libri più venduti, mantenendo per diverse settimane il primo posto. Insomma, sembra essersi ritagliata un posto di tutto rispetto, quanto meno presso il pubblico di lettori. Già, non sono solo le donne ad essere incantate dalla scrittura di Ferrante. Con buona pace della critica ufficiale. Ho volutamente evitato di leggere recensioni, annunci e pareri prima di iniziare il libro per evitare di poter essere in qualche modo influenzata, sapendo anche perfettamente che il confronto con i precedenti romanzi sarebbe stato inevitabile. Confronto che non delude affatto. Infatti già dall’incipit Ferrante afferra il lettore e non lo lascia più.

E’ un fermo-immagine, quella prima frase che apre il romanzo in cui un padre dice della figlia che è molto brutta ed è anche un pugno allo stomaco, specie in un tempo come il nostro che pone l’aspetto estetico delle donne come priorità quasi assoluta per essere accettate. Una frase “pronunciata sottovoce” è il momento che provoca “un dolore arruffato, senza redenzione” e, quindi, una cesura netta tra un prima, smarrito per sempre, e un dopo tutto in divenire che sembra essere per Giovanna, la protagonista, un “niente che sia davvero cominciato o sia davvero arrivato a compimento”. Da qui inizia il racconto con una serie di flash back che portano il lettore all’infanzia di Giovanna fino al momento in cui viene incautamente pronunciata quella frase dal padre, con la porta aperta, e che mette in moto un susseguirsi di avvenimenti che produrranno cambiamenti imprevedibili per tutti i personaggi e non solo per la protagonista.

La vita bugiarda degli adulti è un romanzo di formazione sentimentale al femminile in cui, la protagonista e io-narrante del romanzo, Giovanna racconta di un periodo relativamente breve: dai suoi dodici anni fino al compimento dei sedici; ovvero, quello in cui sta per varcare la fatidica soglia di transizione che conduce dalla pubertà all’adolescenza vera e propria, quello cruciale in cui ogni individuo, suo malgrado, è costretto ad abbandonare le “verità” che ne hanno costellato l’infanzia per entrare a far parte del mondo degli adulti e affrontare le prime delusioni profonde. Quelle che mostrano i genitori come persone reali e non più come eroi.

Ogni adolescente vive questa consapevolezza come un tradimento inconsolabile e Giovanna non è un’eccezione. Eccezionale invece è la scrittura di Elena Ferrante, la sua arte narrativa è straordinaria nella sua incredibile capacità di affabulare il lettore, è il dono di chi sa raccontare mantenendo sempre desta l’attenzione per il piacere che suscita nel lettore grazie all’uso magistrale che fa delle parole. Quella di Elena Ferrante è una scrittura possente, audace che spazza via ogni retorica, che si tiene ben lontana da possibili, quanto insidiose, manifestazioni melense. Questa sua ultima opera è un romanzo di formazione al femminile che destruttura in toto gli stereotipi mielosi che in genere si associano alla svolta adolescenziale delle ragazze.

Affronta il tema della separazione dei genitori dal punto di vista della protagonista e lo fa con la spietata lucidità di quell’età che, piano piano, scopre le innumerevoli menzogne di cui è composta la vita dei grandi e le scompone pezzo per pezzo disvelando non tanto una verità inconfessabile, quanto piuttosto la verità della complessità della vita, anche di quella più apparentemente banale e insignificante che nasconde un insieme di sentimenti che spesso risultano inaccettabili perché escono dai canoni catalogabili tra “giusto e sbagliato” e a questi canoni si sottraggono quando quei sentimenti si vivono in prima persona, mentre quando si usano queste categorie per gli altri i giudizi sono più netti. Ogni personaggio del romanzo, come nella vita, compie scelte sbagliate di cui si vergona e fa di tutto per giustificarle fino a mentire per il bisogno di auto-assolversi, persino quello presentato come migliore fra tutti, che sembra quasi perfetto, senza contraddizioni, sicuramente agli occhi di Giovanna, alla fine viene mostrato in tutta la sua ambiguità. Ciò che allora risulta inconfessabile a se stessi è la propria viltà per l’incapacità di accettare ciò che essi sono realmente rispetto all’immagine di sé che vogliono dare all’esterno.

Il romanzo affronta il tema dell’incomprensione dell’altro, infatti tutti i personaggi, oltre alla protagonista, dimostrano di avere un’idea delle persone a loro più vicine che è la proiezione dei loro sentimenti nei loro confronti e niente affatto intelligenza dell’altro. E così Nella, la madre di Giovanna, ha nei confronti del marito, Andrea, un’ammirazione sconfinata per la sua capacità di essersi affrancato dall’ambiente sociale di origine, gli attribuisce capacità intellettuali e meriti culturali che non corrispondono alla realtà e lo asseconda in ogni suo prepotente egoismo, lo giustifica  e lo scusa consentendogli di non assumersi mai alcuna responsabilità; inoltre si auto-svilisce sobbarcandosi da sola tutte le incombenze domestiche per rendere la vita più facile al marito che è, a suo dire, impegnato in attività di grande spessore culturale, mentre lei pur di integrare lo stipendio corregge bozze di romanzetti rosa per le donne – qui c’è un chiaro riferimento polemico, a mio avviso, nei confronti dell’ambiente culturale italiano, maschilista e paternalista per cui una donna non può che scrivere roba di second’ordine, (riferimento rivolto direttamente ad una parte della critica italiana circa i giudizi sui suoi scritti), che non può essere presa sul serio – umiliando la propria intelligenza. Nella che, anche dopo la separazione si consuma per l’assenza del marito che, nonostante tutto, continua ad amare, ma forse solo per abitudine. Anche la figura di Vittoria presentata da Nella, ma ancor più da Andrea, come una persona malvagia da cui stare alla larga, rappresenta per Andrea il proprio passato, un passato che lui vuole negare a tutti i costi perché se ne vergogna, come si vergogna di quella sorella che quel passato lo incarna con tutta se stessa e lo rivendica con rabbia. Un passato che è anche un luogo, una condizione e al tempo stesso una contraddizione. La contraddizione della città di Napoli che contrappone un’anima elegante, dotta e benestante a quella triviale, ignorante e chiassosa. Le due anime si detestano a vicenda, si disprezzano perché la prima vuole far finta che la seconda non esista e che non è, in ogni caso qualcosa di cui occuparsi, mentre la seconda ritiene che la fortuna della sua avversaria sia frutto della propria sfortuna e ne chiede conto. Entrambe però sono parti integranti l’una dell’altra e di un’unica realtà che è esattamente ciò che accade ad Andrea e a Vittoria, un fratello e una sorella che, pur in guerra tra loro a causa di invidie e gelosie, prepotenze, cattiverie, bugie e reciproci sensi di colpa, si amano e si odiano allo stesso tempo. I legami famigliari, dunque, sono un coacervo di sentimenti ed emozioni che determinano i comportamenti dei singoli, le relazioni e che spesso vengono giustificati con spiegazioni apparentemente razionali, ma in realtà sono avvolti in infingimenti molteplici al puro scopo di auto-assolversi per non dover ammettere e dunque accettare la vera natura di cui si è fatti.

La formazione di Giovanna, ovviamente, non può non passare anche per la scoperta delle proprie pulsioni sessuali e attraverso l’immagine del proprio corpo riflesso negli occhi chi la guarda. Il corpo di Giovanna adolescente non è più lo stesso corpo di Giovanna bambina che si fonde a quello della mamma; è altro e, inizialmente, è un corpo estraneo, quasi nemico perché gli occhi dei maschi glielo rivelano a pezzi – il seno grande, il culo tondo, la faccia brutta – il corpo delle femmine, attraverso gli sguardi maschili pare essere una collezione di pezzi separati e ciò che il corpo contiene, la persona, non è visto dai maschi, mentre quella persona, prima che il proprio corpo diventi oggetto degli sguardi maschili – sguardi che provocano disgusto, repulsione anche per se stessa – quel corpo lo vive per le sensazioni che da esso trae. Anche in questo caso la scrittura di Ferrante ci restituisce un dato di fatto convenientemente negato o taciuto abilmente, dalla cultura corrente e cioè che il corpo delle donne, così come lo racconta la pubblicità, come viene rappresentato dalle sovrastrutture culturali è un’invenzione maschile, una costruzione a cui le donne si attengono per motivi ancestrali, ma è solo apparente l’adesione femminile a questo modello tramandato storicamente. Ferrante ne dà ampia dimostrazione in passaggi cruciali del romanzo in cui Giovanna – in un certo senso è come se svolgesse un compito sgradito ma necessario – si libera della propria verginità quasi fosse un peso e così si emancipa anche da tutti gli insegnamenti bugiardi e ingannevoli ricevuti durante l’infanzia.

Ho amato la tetralogia de L’amica geniale e prima ancora Un amore molesto, Gli anni dell’abbandono, La figlia oscura e quest’ultimo romanzo di Elena Ferrante non delude affatto e regge benissimo il confronto con le sue opere precedenti. Molti temi già affrontati precedentemente ritornano, ma con una mano più lieve e, allo stesso tempo, più profonda, più risolutiva. La sua maestria riesce a rendere la fase adolescenziale dal punto di vista femminile senza falsi pudori, senza infingimenti, facendo finalmente giustizia e abbattendo uno per uno tutti gli stereotipi che vengono affibbiati da una retorica retriva alle ragazze di questa età che dovrebbero essere tutte prese dai primi amori romantici con conseguenti delusioni, preoccupate e occupate solo dal loro aspetto fisico, alla ricerca di un principe azzurro che, spesso come la cronaca ci racconta, invece è un cavaliere nero.

© L. R. Capuana

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