Questione sostanziale e non di mera lana caprina come dicono tanti “lorsignori”

Introduzione
Ricordo che quando ero ragazzina i maestri elementari spesso venivano appellati “professore”, così come i geometri venivano chiamati “ingegneri”. Una forma di rispetto per la professionalità di alcuni che per stima venivano gratificati di una maggiorazione del titolo cui il loro titolo di studi dava diritto.
Paradossalmente oggi, in modo quasi sempre più diffuso, mi si dà della signora anziché della professoressa e nel mio stesso luogo di lavoro, stranamente dalle impiegate della segreteria della scuola dove lavoro.
In passato, inoltre, le maestre godevano di grande stima per la loro rarità nella professione per lo più caratterizzata da maestri. Oggi è esattamente il contrario, le donne nel campo dell’insegnamento sono diventate la maggioranza, i maestri poi sono diventati pressoché rari, e la stima e il prestigio sociale sono diminuiti in senso inversamente proporzionale. Il gender gap salariale in Italia è una piaga diffusa in tutte le professioni, fa specie tuttavia constatare che man mano che aumentava la presenza femminile nelle istituzioni scolastiche di pari passo diminuiva la stima nei confronti della professione in generale e soprattutto il rispetto mostrato ai docenti da genitori e studenti. Non così in ambito universitario dove le docenti a pieno titolo sono ancora una minoranza.
Va sottolineato anche che a parità di titolo di istruzione, la laurea magistrale o quella del vecchio ordinamento, i docenti italiani percepiscono un salario nettamente inferiore anche per quanto riguarda i loro pari impiegati nella pubblica amministrazione in generale.

L’attualità
L’argomento più dibattuto della settimana appena trascorsa è stato il modo in cui Giorgia Meloni, neopresidente del Consiglio dei ministri, ha scelto di farsi chiamare ufficialmente e tramite circolare di Palazzo Chigi:

Inutile dire che questa ufficializzazione ha scatenato ilarità e satira sui social, di sicuro una circolare abbastanza fuori luogo e piuttosto ridicola. Insomma, non se ne sentiva proprio il bisogno. Ufficializzazione peraltro quasi subito soggetta a rettifica, in Italia c’è sempre qualche cretino che sbaglia ma di cui non si conosce mai il nome o il cognome.
Ciò che mi ha colpito maggiormente però è stata la difesa ad oltranza di questa scelta da parte di chi, da molto, moltissimo tempo, si batte ferocemente contro la parità di genere, mascherando maldestramente questa loro battaglia, che è nient’altro che la difesa dello status quo, ovvero del privilegio maschile, come una battaglia di senso comune e contro ciò che loro definiscono, lotta al fenomeno censorio del cosiddetto politically correct. Espressione, quest’ultima, coniata dai più retrivi neocon appartenenti al partito repubblicano statunitense per denigrare tutti quei richiami provenienti da parte dei democratici affinché in politica si usasse un linguaggio rispettoso nei confronti di tutte le minoranze presenti in quel Paese che, contrariamente alla vulgata, vengono costantemente e violentemente represse e ai quali sistematicamente vengono negati diritti sanciti dalla loro Costituzione.
Fenomeno che è stato importato anche da noi, quello di usare appellativi offensivi da alcuni lustri, penso ad esempio ad un certo politico che diede dell’orangotango ad un ministro per puro sfregio. Oppure, basti pensare agli slogan adottati da certe tifoserie negli stadi verso avversari di squadre meridionali o nei confronti di giocatori dal color della pelle scura e per i quali sono stati adottate anche sanzioni giudiziarie.
In modo alquanto bizzarro però quando questo tipo di violenza verbale è diretta alle donne o ad altre minoranze non suscita la medesima indignazione collettiva e anzi viene sistematicamente derubricata come appunto “nulla di che” e farlo rilevare suscita una levata di scudi tirando fuori puntualmente la storia della dittatura del politically correct, appunto. Nemmeno di fronte alla rettifica di Palazzo Chigi costoro hanno fatto ammenda, così, per inciso.
I precedenti
Sicuramente la crociata di molte figure femminili di spicco nei confronti di un linguaggio più gender inclusive pretendendo di modificare di imperio costumi e usanze culturalmente radicati, quindi eliminando di botto il maschile plurale, inteso come plurale neutro, sostituendolo con la schwa o con l’asterisco; oppure imponendo a tutti di usare a forza il femminile per tutte le professioni e tutti i ruoli ricoperti da donne, non ha, a mio avviso servito la causa. Anzi l’ha danneggiata profondamente perché ha prestato il fianco, cosa del tutto prevedibile, a chi si è messo subito di traverso tacciandole di stupidità in quanto, se di problema di tratta non è per niente prioritario.
Personalmente sono convinta che per far funzionare una campagna culturale serva individuare bene i tempi e i modi opportuni. Al momento sarebbe più urgente lottare per la parità di salario e per un’organizzazione del mercato del lavoro più attento e più rispettoso delle dinamiche famigliari che ancora oggi penalizzano le donne e le loro legittime ambizioni professionali.
Questa puntigliosa difesa del linguaggio inclusivo, dunque, avrebbe avuto più successo se la si fosse condotta dopo aver conseguito risultati pratici più incisivi, come la riduzione dell’orario di lavoro per tutti e un periodo di “paternità” (il termine è voluto anche come richiamo chiaro ai doveri paterni che non devono essere da meno da quelli materni) pari a quello della maternità per obbligo di legge. In questo modo se non si ottiene rispetto almeno si bilanciano gli svantaggi derivanti da una prolungata assenza dal lavoro visto che c’è sempre qualcuno pronto a fare le scarpe alle donne. Invece questa battaglia non è mai iniziata.
Quanto alla scelta di Meloni di non adottare l’articolo determinativo femminile davanti al titolo di presidente è sicuramente errata grammaticalmente, come stabilito anche dalla Accademia della Crusca, ma è soprattutto una scelta ideologica che la connota intanto come non femminista, e mica deve esserlo per forza, infatti si tratta di scelta insindacabile, per me non condivisibile, ma certo non degna di così tanta attenzione mediatica perché ha consentito ai soliti maschi timorosi di perdere i loro piccoli meschini privilegi di arrogarsi il diritto di stabilire cosa sia urgente discutere, oppure no.
Come sempre capita in queste discussioni futili, infatti, loro finiscono per avere la meglio perché in effetti il maschilismo linguistico è il sintomo e il riflesso del maschilismo in senso lato che è quello molto più diffuso e inveterato nella società italiana che è di fatto la causa e la radice che affligge anche molte donne che pur di sentirsi forti e vincenti si schierano con i maschi, sempre. Specie se si tratta di donne di destra.
Conclusione
Ora, se eliminiamo la causa, la radice di questo male endemico della nostra società, per suo effetto diretto e spontaneo anche il linguaggio si trasformerà come d’incanto.
D’altronde professoressa, dottoressa, o infermiera, solo per fare qualche esempio banale, sono di uso comune da decenni e senza far storcere il naso ad alcuno semplicemente perché da decenni in queste professioni la presenza femminile è abbastanza diffusa se non maggioritaria, come si è detto, certo sono professioni di cura e assistenza, per cui forse dovremmo attrezzarci per fare anche altro nella vita anziché prenderci solo cura degli altri.
© L. R. Capuana