La scuola: classista o inclusiva?

Il mio post Ministro Azzolina, no, così non va! di qualche giorno fa, come era prevedibile, mi è valso delle critiche.

Ben vengano, è sempre utile il confronto con idee diverse dalle proprie perché ci spinge ad interrogarci su ciò che esprimiamo e su come ci si esprime.

Infatti, su Facebook si è sviluppata una conversazione molto interessante che mi ha fatto riflettere tanto e mi ha dato spunto per quest’altro scritto.

Mi è stato obiettato in particolare il fatto che, poiché nel mio articolo richiamo il rispetto delle norme vigenti sulla didattica a distanza, chiarendo che si tratta di attività volontaria e non obbligatoria da parte di docenti e discenti, io stia asserendo che sarebbe meglio non farla; e mi si obietta anche che poiché io abbia sottolineato che esiste una popolazione scolastica di ben un milione e seicentomila studenti esclusi dalla didattica a distanza sia opportuno non farla per nessuno. E però io scrivo altro:

riassumendo: per decreto il governo ha sospeso le attività didattiche e dunque sono sospese anche le valutazioni; la DaD è attività volontaria e non obbligatoria sia per docenti sia per discenti, un milione e seicentomila studenti sono da essa tagliati fuori per i vari motivi già elencati; la domanda allora sorge spontanea: come possono esprimere una valutazione i docenti? Quali studenti si potranno valutare e quelli che non hanno partecipato alla DaD per mancanza di mezzi o per rifiuto legittimo come sarà possibile valutarli? Posto che, ricordiamolo, la DaD non è normata e qualsivoglia valutazione non ha alcuna validità legale.

Tra l’altro nello stesso testo affermo che la stragrande maggioranza dei docenti si è subito data da fare per mantenersi in contatto con i propri studenti e ancor prima che arrivassero i dirigenti scolastici, demandati dal ministero, a “spronare” i docenti. Sono i dati del ministero a certificare questa reattività, in alcuni casi forse un po’ troppo istintiva, come rilevo in un altro mio intervento sul tema.

Con tutta evidenza il mio ragionamento non è affatto che non si debba fare nulla per nessuno. Al contrario io sostengo che la stragrande maggioranza della popolazione scolastica, seppur con le difficoltà derivanti dall’improvvisazione per l’emergenza, viene raggiunta dai docenti e sta effettuando la DaD, attività che ribadisco essere non obbligatoria né per gli uni né per gli altri. E nessuno può smentirmi su questo che è un dato di fatto. Poi si può pure tirare in ballo il senso di responsabilità, il senso del dovere e tutto quello che si vuole, si è anche tirato in ballo l’art. 54 della Costituzione, su cui non mi dilungo perché ritengo più che esaustivo il seguente link, ma il dato di fatto della non obbligatorietà rimane incontrovertibile. Come poi da qui si possa giungere a dire che io sostenga di non farla per nessuno mi è del tutto incomprensibile.

Il mio ragionamento verte su una questione che io ritengo, poi magari ho anche torto, fondamentale: se esiste un milione e seicentomila di studenti non raggiungibili come si possono valutare?

Secondo l’autore di un articolo pubblicato, in questi giorni, su uno dei quotidiani più importanti del paese, quella popolazione scolastica che subisce il divario digitale ne era vittima anche prima e cioè in condizioni normali e quindi non è la didattica a distanza che lo determina, pertanto, continua in buona sostanza, ce lo dobbiamo tenere:

Secondo molti la DAD approfondisce questo divario, è iniqua perché aggrava l’iniquità sociale. Non è esattamente così. Il divario digitale è radicato in un divario sociale anteriore alla scuola; la scuola non può eliminarlo; in condizioni normali ne riduce solo alcuni effetti sul lato istruzione-educazione, se funziona bene: a distanza, ne limita meno gli effetti, perché è più difficile farlo; ma se non fa niente, quegli effetti si dispiegano nella loro totalità. Quindi: non è vero che aumenta il divario sociale, semplicemente lo combatte con mezzi più limitati. Ma se non lo combattesse sarebbe peggio.

Più o meno dello stesso tenore sono certi commenti che ho ricevuto alla mie ripetitive e noiose domande che, peraltro non hanno mai ricevuto risposte, e che ripropongo qui:

  • tra i criteri di valutazione dei discenti proposti da alcuni docenti c’è la presenza a lezioni in videoconferenza, la puntualità di consegna dei compiti assegnati e via di questo passo, se non vi è alcuna obbligatorietà per gli studenti, questi criteri per la valutazione sono leciti?
  • E ancora, il milione e seicentomila come lo valutiamo?

Inoltre noto che per molti commentatori, dentro e fuori la scuola, quella parte di popolazione scolastica raggruppata indistintamente in quell’ormai famoso 1,6 mln, ma più in particolare, quella a rischio delinquenza o border line non è minimamente contemplata nei loro orizzonti socio-politici, è una moltitudine invisibile, esclusa persino dalle discussioni. Com’è possibile?

Quando poi si dice che la scuola non deve essere strumento di riscatto sociale, non deve essere un ascensore sociale perché altrimenti si giustifica una società verticistica in cui si perpetuano le disuguaglianze sociali, mi chiedo se questo ragionamento non sia in realtà utile a chi sostiene che, poiché questi sono gli stessi che ingrossano le statistiche della dispersione scolastica anche in tempi normali, in emergenza non ci si può occupare di loro, bensì meglio pensare a tutti gli altri che sono comunque la maggioranza.

Tuttavia la società attuale è verticistica, la società in cui viviamo genera e rafforza le disuguaglianze sociali, ma per combattere questo stato di cose si deve prima garantire una distribuzione della ricchezza più giusta, si devono assicurare ai diseredati di questa società di appropriarsi dei mezzi e degli strumenti della conoscenza perché siano in grado di capire, innanzitutto, la differenza tra diritto e favore elargito dall’alto con condiscendenza, perché il “favore” si paga con la fedeltà cieca, la gratitudine e l’obbedienza.

Nondimeno per poter apprezzare e persino per poter comprendere questa fondamentale differenza l’individuo deve, prima di ogni altra cosa, essere libero dal bisogno o, quanto meno, possedere i mezzi di sussistenza. Questo significa avere un lavoro regolare senza il quale è facile preda di ricatti; in condizioni di bisogno estremo l’individuo pur di sfuggire alla disperazione è disposto a tutto, figuriamoci accettare un “favore”, al contrario quello verrà visto come la salvezza, l’unica che gli è stata offerta.

Tanti anni fa ho insegnato in un Istituto Professionale per l’Industria e l’Artigianato (I.P.S.I.A.) in un piccolo comune di provincia. Un giorno rimasi piuttosto sconcertata quando un ragazzino di prima mi disse che la scuola non serviva a niente e che invece la mafia gli dava protezione, gli metteva i soldi in tasca e gli consentiva di ottenere rispetto e status sociale. Cercai di ribattere, per la mai forma mentis quel discorso non si poteva sentire. Ma mi accorsi subito che qualsiasi cosa io dicessi gli sarebbe suonata incomprensibile, innopportuna persino.

Continuai, ovviamente, a distribuire in classe fogli e penne per scrivere e, in qualche modo, continuai a fare lezione, per mesi interi rimasi inchiodata al presente semplice del verbo essere in inglese. Non era, infatti la mia disciplina che dovevo impartire. Nel frattempo indagai per capire il motivo di quella convinzione così radicata e così fermamente sostenuta in classe da lui e condivisa da altri suoi compagni. Col tempo compresi che in determinati contesti sociali ciò che lui diceva era, purtroppo maledettamente, vero.

Per un ragazzino di quell’età che torna in una casa vuota alla fine della scuola e deve accontentarsi di un piatto di pasta fredda che la mamma gli ha preparato la sera prima perché si alza alle quattro del mattino per andare a lavorar,e rigorosamente in nero, in qualche magazzino di frutta, a bordo di un furgone vecchio, stipata insieme a tante altre operaie, magari a 60 o 70 Km di distanza, senza alcuna garanzia perché se arrivata a destinazione scopre che non c’è lavoro torna a casa senza paga, ma deve corrispondere le spese del viaggio al caporale di turno e senza poter fiatare; una mamma che torna sfinita, sfruttata e un ragazzino che è testimone di soprusi e minacce.

Un ragazzino che cresce in queste condizioni di disagio che valore può dare alla scuola specie se la scuola è sorda alle sue richieste di aiuto? In un contesto del genere la scuola che è lo Stato viene percepita come nemica, tanto di più se la scuola viene abbandonata a se stessa dalle altre istituzioni. In questi contesti dovrebbero essere gli enti locali ad affiancare le istituzioni scolastiche; ma ci sono sempre urgenze più pressanti a cui la politica rivolge la sua attenzione.

La scuola in questi contesti fa spesso miracoli eppure non ottiene alcun riconoscimento, anzi viene bacchettata perchè la sua grande opera viene giudicata in base a numeri freddi, ma nient’affatto neutrali, sono i numeri che si ottengono dai risultati delle famigerate prove INVALSI, dati oggettivi, si dice, perchè misurano le competenze acquisite dagli studenti che vengono poi usati per valutare l’efficacia e l’efficienza degli istituti scolastici.

Ciò che però questi dati non misurano e non valutano è che per ogni giorno in più che uno di quei ragazzini passa a scuola è un giorno in meno per strada, un giorno in meno in qualche sala giochi o punto scommesse; è un giorno in cui resiste alla tentazione di soldi facili, un giorno in cui non spaccia, un giorno in cui, forse, ascoltando qualche parola diversa dal solito può trovare una pur vaga ragione per tornare il giorno successivo e magari chissà.

Ma se la scuola lo ignora, o peggio lo etichetta come lavativo, come quello che disturba, come violento; se la scuola fa di tutto per liberarsene perché la sua presenza può rovinare i dati INVALSI da inserire nel RAV. Se anche per la scuola è un invisibile non ci si può stupire se a vent’anni è già organico alla mafia perchè la mafia gli ha offerto quell’occasione di riscatto sociale, l’opportunità di riempirsi la pancia prima delle tasche, la mafia gli ha consentito di ottenere quel rispetto e quello status sociale che lo Stato gli ha negato. Lo Stato che consente ai delinquenti di sfruttare il lavoro della madre. Lo Stato che gli ha rubato l’infanzia e la scuola che è lo Stato e lo spinge via anzichè prendersi il tempo per non perderlo, la scuola che, per rientrare in quei numeri, non si cura di lui perchè non è la maggioranza, perché lui, come tanti come lui, è predestinato alla delinquenza, questa scuola che scuola è?

Quando alcuni docenti parlano di meritevoli da premiare (che poi vorrei capire cosa c’è da premiare, se uno studente studia, si impegna e ottiene dei buoni profitti scolastici già è premiato dal suo impegno, perciò che vuol dire premiare i meritevoli? Dargli ciò che gli è dovuto?) e i lavativi da punire a questo ragazzino cosa dicono? Cosa stiamo dicendo come società? Punire per cosa?

Oltretutto se a questi ragazzi si offre un appiglio, si offre un’occasione sono i primi a provarci, a riconoscere che il docente, da parte sua, si sta sforzando e gli tende la mano; ma sono anche i primi a capire se il docente è interessato al “programma” più che a lui, a loro, alla classe, come capiscono se il docente è lì solo per giudicare e condannare perché loro non sono conformi alla sua idea di scuola, alla sua idea di classe.

L’INVALSI però tutto questo non lo misura, non lo valuta, non può farlo e allora a che serve l’INVALSI e a che serve la scuola? Serve per dire che questi sono irrecuperabili, che sono lo scarto della società, che sono le statistiche della dispersione scolastica che esiste con la didattica in presenza e se la didattica in presenza non li recupera, figuriamoci quella a distanza e certo, ovviamente, il loro problema non è il divario digitale, non è fornendogli il dispositivo in comodato d’uso, i giga extra che si recuperano, che si creano per loro quelle pari opportunità, le cosiddette uguali condizioni di partenza.

Però, però non può l’emergenza del coronavirus costituire ancora un altro alibi per rendere questa popolazione scolastica ancora e sempre più invisibile.

L’emergenza del coronavirus invece deve imporre all’attenzione della scuola (quelle di frontiere lo sanno già), deve imporre all’attenzione dei commentatori – magari i commentatori che vivono l’università più che la scuola e che, certamente, non possono avere presente queste realtà perché queste realtà non varcano mai la soglia degli atenei, eppure esistono -, deve imporre all’attenzione dell’opinione pubblica e soprattutto della politica, del Ministero dell’Istruzione che è urgente occuparsi di loro in modo strutturale, ora e ancora di più dopo l’emergenza perché non si ripeta più che la scuola ignori questi ragazzi, perché lo Stato si occupi di loro e attui concretamente l’art. 3 della Costituzione.

Nell’immediato l’unica cosa che può fare lo Stato, per tramite del Ministero dell’Istruzione, è sospendere l’Autonomia scolastica – così come ha sospeso le prove INVALSI – e quanto previsto dai vari PTOF, azzerare qualsiasi griglia di valutazione e loro criteri e assicurare a tutti, sì proprio a tutti, l’ammissione alla classe successiva, in quanto non si tratta di sanatoria o di sei politico; bensì di una necessità durante uno stato di emergenza.

© L. R. Capuana

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