L’articolo che segue è stato pubblicato sul n. 5 – settembre della rivista trimestrale DDF (DiscorsiDonneFilosofe) di Pina La Villa, allegato alla rivista on-line girodivite. Tutti gli articoli pubblicati, in questo numero, hanno un unico filo conduttore: la scuola. Il mio, in particolare, si concentra sul perché i docenti in gran numero sono contrari alle prove INVALSI.
di Lucia R. Capuana
Quando ho iniziato a fare ricerche per questo articolo, l’intenzione era di mettere a confronto il dibattito che vede contrapposti negli Stati Uniti insegnanti e legislatori sulla validità dei Common Core State Standard Tests (CCSS), gli equivalenti USA delle prove INVALSI, e il dibattito italiano. Seguendo con grande interesse da mesi il dibattito statunitense mi sono resa conto che i motivi opposti ai CCSS dai docenti USA sono gli stessi che animano il dibattito italiano e, allora, mi sono detta, se anche i docenti di oltre oceano, quegli stessi docenti che ci vengono portati sempre come esempio dai politici nostrani, che ci vengono indicati come modelli da seguire perché all’avanguardia, perché più in gamba, sono anche loro contrari e condividono le nostre stesse perplessità, concordano con noi sui danni inflitti ai ragazzi da questa valutazione pseudo oggettiva, vuoi vedere che forse la nostra non è proprio una protesta di parte?
Nel frattempo, a questa riflessione, si è aggiunta una certa mole di materiale raccolta e la prospettiva dalla quale sono partita si è, inevitabilmente, ampliata, e così mi è parso sempre più evidente che l’applicazione delle prove INVALSI che da noi risale al 2007, mentre negli USA è stata introdotta, anche lì dall’alto, nel 2009, è solo l’atto più recente, da quest’anno legge, di un disegno di riforme iniziato nei due continenti (Europa e nord America) ben trent’anni fa e che ha come scopo ultimo lo smantellamento progressivo dell’istruzione pubblica. Se si fa bene attenzione agli argomenti usati da trent’anni a questa parte per instillare nell’opinione pubblica l’idea di un sistema d’istruzione allo sfascio; se si analizzano bene i termini usati per veicolare questo messaggio di progressivo declino che necessita urgentemente di riforme che, nell’arco di questi trent’anni, sono state via via introdotte, in Europa quanto negli USA, si scopre qualcosa di molto interessante e trasversale alle parti politiche nonché da una parte all’altra dell’Occidente. Io però intendo concentrarmi su quanto accade in Italia, pur dando un’occhiata di sfuggita, anche a quanto registrano i nostri colleghi sull’altra sponda dell’Atlantico, perché mi sembra molto significativo.
La scuola pubblica, come si è detto, è sotto attacco politico da circa trent’anni e pare essere la ragione principale del ritardo industriale del paese, e questo, per lo più, a causa di una classe docente vecchia che rifiuta ogni tipo d’innovazione e vuole restare arroccata a difendere le sue posizioni di rendita e i suoi privilegi. Così è stato detto anche dall’ex presidente del Consiglio, Mario Monti. Ed è per questa ragione, così sostengono in tanti, che essa sconta un grave ritardo produttivo, è poco competitiva, inefficiente nello sviluppo delle competenze dei discenti, delle loro abilità di problem-solving, inefficace nel capitalizzare il fattore umano e, quindi, incapace di tradurlo in buon profitto scolastico. L’offerta formativa non è sempre all’altezza delle esigenze dei tempi e, quindi, i clienti si rivolgono altrove. A ben vedere questi termini, entrati ormai nell’uso comune del lessico scolastico, sono tutti mutuati da settori economico-industriali e imprenditoriali. Ma non finisce qui, infatti, si prospettano altre mirabolanti promesse di simile tenore come l’alternanza scuola-lavoro nella forma di tirocini obbligatori presso aziende presenti sul territorio, dove gli studenti avranno la magnifica opportunità di fare esperienze lavorative non retribuite, apprendistati utili e spendibili per il loro futuro inserimento nel mondo del lavoro. Del tutto desueti invece sono i termini quali creatività, fantasia, interesse, curiosità, passione, piacere. Queste parole non sono più utili, non sono spendibili né tanto meno necessari nel mondo del lavoro. Ancora una volta, come si può notare, si usano vocaboli tipici dei settori economici e produttivi.
Se la scelta delle parole non è casuale, e non lo è; sorge il dubbio che il tanto vituperato declino della scuola italiana, che nessuno nega, lo si voglia affrontare da una prospettiva strettamente funzionale ai bisogni e alle esigenze immediate dell’industria e delle imprese, non certo per migliorare realmente le opportunità di crescita interiore e di apprendimento degli studenti abbattendo, o quanto meno, riducendo gli ostacoli e le barriere socio-economiche che, proprio oggi, minano, ancor più forse che in passato, il diritto allo studio di tanti ragazzi, come sancito dalla Costituzione italiana.
Il dubbio diventa certezza quando, appunto facendo ricerche su Internet si scopre che, per esempio, circa una trentina d’anni fa qualcuno si rese conto che il mondo dell’istruzione e della formazione poteva diventare un settore molto redditizio da sfruttare. Andando a spulciare qua e là viene fuori che a partire dal 1989 la Tavola Rotonda Europea degli industriali capì che per fronteggiare la maggiore produttività statunitense rispetto a quella europea, e per competere con il consumismo statunitense, bisognava investire nell’istruzione e nella formazione al fine di ottenere, in tempi rapidi, manodopera a basso costo e ottimi consumatori. Per ottimi s’intende una moltitudine sempre crescente di acquirenti che indiscriminatamente consuma. L’imperativo era, e rimane, consumare consumare consumare. Oggi questo gruppo di industriali investe nel settore dell’istruzione e della formazione circa il 51% dei loro utili annuali.
Ottimo si dirà, siamo sicuri? Sempre curiosando nel web apprendo che l’OCSE dietro pressioni degli industriali, a sua volta, inizia a fare pressioni sull’Unione Europea perché la scuola soddisfi i bisogni dell’industria e così, nel corso di questi trent’anni, sono stati varati il trattato di MAASTRICHT nel 1992, il “Libro Bianco” dell’Unione Europea nel 1993; nel 1995 e ancora nel 1997 seguono ulteriori pressioni da parte della già citata Tavola Rotonda Europea, poi il Vertice di Lisbona del 2000 e i documenti della Commissione Europea del 2003 dove finalmente si delinea il percorso che porta, attraverso le prove OCSE-PISA, alle attuali prove INVALSI.
Le intenzioni formulate nei documenti sopra citati, le linee guide per raggiungere questi obiettivi delineati potrebbero sembrare effettivamente di sviluppo, di innovazione e crescita, infatti, sono documenti, trattati, accordi tra gli Stati Europei in genere inerenti a materie economiche, a strategie volte a unificare i percorsi dei singoli stati in vista di un’Unione Europea monetaria. Ma la domanda da porsi è sviluppo, innovazione e crescita di cosa e di chi? Dell’industria e delle imprese a livello planetario, perché nel frattempo c’è stata la globalizzazione, eppure questi provvedimenti e queste riforme sono state presentate come tese a favorire l’ingresso dei giovani nel competitivo e sempre più selettivo mondo del lavoro, già, e anche questa intenzione è stata accolta con favore dall’opinione pubblica.
Ma, come sostiene Umberto Galimberti, “se è vero che la scuola è l’esperienza più alta in cui si offrono i modelli di secoli di cultura, se questi modelli restano contenuti della mente senza diventare spunti formativi del cuore, il cuore comincerà a vagare senza orizzonte in quel nulla inquieto e depresso che neppure il baccano della musica giovanile riesce a mascherare”[i], se a queste varie forme di disagio giovanile che spesso si traducono in abuso di alcol e droghe, e che conducono alla “deriva dell’esistere”, dice Galimberti, “che è poi quell’assistere allo scorrere della vita in terza persona” si è risposto, “con quell’elenco di riforme”, continua Galimberti, “di autonomie gestionali, rivalutazione della figura del preside, incentivi materiali, nuovi programmi ministeriali messi a punto in funzione di nuovi profili professionali, accorpamento di indirizzi di studio, commissioni di esperti, informatizzazione di questo e di quello, magnifici libri di testo, corsi integrativi, corsi d’aggiornamento” (…) mentre “l’unico fattore trascurato” è “l’adolescente che tra i banchi di scuola finisce per trovare solo quanto di più lontano e astratto c’è in ordine alla sua vita, in quella calda stagione dove il sapere non riesce, per difetto di trasmissione, a divenire nutrimento della passione e suo percorso futuro”[ii].
Similmente Hannah Arendt sostiene che “Se la conoscenza (nel senso moderno di know-how, di competenza tecnica) si separasse irreparabilmente dal pensiero, allora diventeremmo esseri senza speranza, schiavi non tanto delle nostre macchine quanto della nostra competenza, creature prive di pensiero alla mercé di ogni dispositivo tecnicamente possibile, per quanto micidiale.” Nel 1958, quando uscì il libro Vita Activa per quelli di Einaudi, Arendt considerava “queste conseguenze estreme e ancora incerte”[iii], nel 2013, purtroppo queste conseguenze sono diventate realtà concreta con cui fare i conti, tant’è che oggi quella che Arendt definisce “la più alta e forse la più pura attività di cui l’uomo è capace, il pensiero”[iv] non solo non viene più presa in considerazione, come lei temeva che accadesse, ma addirittura viene considerata da alienare sostituendo al pensiero critico che diventa “coscienza critica” e, quindi, “originalità individuale, la glorificazione della competenza standardizzata, che determina un sapere elementare e immediatamente fruibile nei mercati, creando buoni acquirenti e buoni esecutori”, così Calogiuri.
E qui sta il primo inganno perpetrato ai danni della scuola e dell’adolescenza. Sì, perché da trent’anni la scuola non è più quel tempo sospeso fatto di domande, dibattiti, confronti tra pari e complessi di Edipo affrontati e superati, quel tempo durante il quale una volta si creavano i cittadini consapevoli del futuro. No, oggi la scuola è vista, da alunni e società, in generale, come una sorta di tirocinio-apprendistato dove gli adolescenti imparano competenze (saper fare o, in termini più modaioli, know-how), che non sono conoscenze e saperi, dove gli alunni imparano ad imparare, acquisiscono abilità per svolgere compiti ed eseguire direttive, tutto in funzione del lavoro. Un lavoro da inseguire, un lavoro per cui competere, un lavoro per cui essere selezionati. Se ne deduce che tutto ciò che non è funzionale al lavoro, utile per il lavoro, e immediatamente spendibile nel mondo del lavoro non serve a niente e allora perché bisogna studiarlo?
Ed eccoci al secondo inganno, la specializzazione. Acquisire metodo e capacità esecutive settoriali, minime e indispensabili nozioni per eseguire dei compiti semplici ed elementari. Già, se uno studente sogna di viaggiare per lavoro gli servono le lingue e basta. Se un altro pensa di potere avere buone opportunità lavorative in un’azienda commerciale a che gli serve la geografia? E se un altro vuole portare avanti l’azienda agricola di famiglia perché mai dovrà studiare le funzioni? Gli basterà conoscere cos’è la partita doppia. Tanto più che da anni si dibatte sull’inutilità degli studi umanistici, a che serve la filosofia, il latino, il greco poi? No, in Italia non si è mai sviluppata la cultura degli studi scientifici ed è lì che bisogna puntare, tutto il resto si può buttare al macero, perché non serve, non è funzionale. Insomma, non è utile checché ne dica chi sostiene, come fa Giorgio Israel nel suo bell’articolo, che un buon ingegnere, un buon tecnico o scienziato non può fare a meno di una cultura dal vasto respiro, perché la pratica senza teoria è semplicemente esecuzione tecnica di gesti meccanici e ripetitivi che non conducono ad alcuna creazione.
Già non è certo utile all’industria e alle imprese avere professionisti, ricercatori, impiegati e operai che sappiano pensare, che sappiano capire che dietro una scelta accurata delle parole si cela l’inganno a loro carico. Tutto a loro carico, perché è a loro che stanno rubando passato, presente e soprattutto futuro, perché il paradosso è che, ancora Arendt, “ci troviamo di fronte alla prospettiva di una società di lavoratori senza lavoro, privati cioè della sola attività rimasta loro. Certamente non potrebbe esserci niente di peggio”[v]. Pertanto, come dice Chris Hedges, “si è innestata nell’istruzione l’idea del successo monetario che si ottiene tramite un adeguato tirocinio aziendale, mentre non dovremmo dimenticare che il vero scopo dell’istruzione è di creare menti e non carriere; una civiltà, continua Hedges, che non comprende quanto sia vitale l’interazione tra moralità e potere e che scambia per saggezza la gestione delle tecniche, o che non comprende che il metro di giudizio per il suo buon funzionamento non è la velocità o la facilità di consumare bensì la compassione e la solidarietà verso l’altro, è una civiltà che decreta la propria morte” (la traduzione è mia).
In questo quadro complessivo brevemente delineato è palese la funzione delle prove INVALSI, e dovrebbe essere altrettanto palese il motivo per cui questi metodi di valutazioni standardizzati incontrano tanta ostilità e resistenza tra gli addetti ai lavori, e cioè gli insegnanti che non sono mai stati interpellati sulla bontà di questi metodi valutativi, e anche quando hanno espresso le loro opinioni in merito sono stati del tutto ignorati.
I sostenitori delle prove INVALSI ritengono siano utili per stabilire uniformemente e con metodo assolutamente oggettivo il livello di preparazione degli studenti su scala nazionale. I questionari sono anonimi e, quindi, sostengono i fautori dell’INVALSI, pur estraendo informazioni sulle condizioni socio-economiche degli alunni queste servono solo a scopo conoscitivo. Ma di fatto non è così, queste informazioni servono ad elaborare una mappatura della tipologia specifica della popolazione studentesca presente in un istituto scolastico per meglio catalogarlo nel suo insieme traendo delle statistiche di profitto che saranno inglobati come fattori determinanti in ragione dei quali le istituzioni scolastiche, a parità di profitto valutativo raggiunto, ottengono finanziamenti proporzionali.
Ma quali sono le ragioni contrari alla validità dell’INVALSI? Innanzi tutto la presunta oggettività della valutazione si scontra con la realtà concreta. Chi lavora nell’ambito della didattica, infatti, sa bene che ogni classe è un microcosmo a se stante, non esistono due classi uguali nello stesso istituto, nello stesso territorio per il semplice motivo che le classi, anche quelle dello stesso anno e di uno stesso indirizzo scolastico, sono composte da persone e, così come non possono esistere due persone uguali, non esistono due classi uguali. Le dinamiche interne alle varie classi, il sostrato socio-culturale di ciascuno allievo, le singole personalità concorrono tutte insieme a formare uno humus unico e irripetibile e dunque sostenere che ci possa, o debba, essere uno standard nella programmazione e negli apprendimenti è pura illusione. Si possono adottare strategie similari, fare tentativi, ma, in ultima analisi i docenti devono rispondere soprattutto alle esigenze dei ragazzi, indirizzarli e guidarli verso dei processi di apprendimento che sono loro consoni e che diano esiti positivi, altrimenti si va incontro al fallimento della funzione docente. E peggio ancora si rovinano degli adolescenti che dagli esiti scolastici negativi spesso non si riprendono più come le cronache di tanti suicidi testimoniano. E allora facendo nuovamente riferimento a Umberto Galimberti, “la scuola potrebbe dare un positivo contributo introducendo quei programmi di alfabetizzazione emotiva, in modo da insegnare ai bambini, oltre alla matematica e alla lingua, anche le capacità interpersonali essenziali, che hanno la loro matrice in quei centri emozionali del cervello che sono i più antichi, quelli che hanno consentito agli uomini di dare avvio alla loro storia”[vi].
Tutto ciò vale ancora di più per quegli alunni che frequentano scuole in territori particolarmente a rischio, in Italia, come in qualsiasi nazione, ce ne sono innumerevoli. Penso alle scuole delle grandi periferie metropolitane, penso alle scuole di ogni sud del mondo dove molto spesso gli studenti provengono da realtà al limite della sussistenza, dove c’è un’alta densità di micro-criminalità, dove la legge la impone il crimine organizzato e lo Stato è del tutto assente, se non per la presenza degli istituti scolastici, dove il tasso di dispersione scolastica è altissimo per i motivi succitati. In queste realtà è già un enorme successo per i docenti che vi operano se i ragazzi vanno a scuola con una certa regolarità, in questi contesti è già una conquista farli stare seduti a prestare un minimo di attenzione. Come si può pensare allora che in queste scuole si adottino programmi scolastici standard? Come si può parlare di obbiettivi minimi, di sufficienza, di competenze e via di questo passo? Ed è responsabile la classe docente se questi alunni non raggiungono i medesimi risultati dei loro coetanei, nati per caso altrove? Sono veramente gli insegnanti gli inadempienti? Siamo sicuri? E quale sarebbe la risposta proposta da coloro che sostengono la validità della valutazione oggettiva? Ridurre i fondi da stanziare per queste scuole? Se è questa è la proposta, è aberrante.
Eppure è esattamente ciò che accade dove questi metodi di valutazione oggettiva sono già stati agganciati alla valutazione degli istituti scolastici e alla valutazione dei docenti che lì insegnano. Negli Stati Uniti, infatti, quegli istituti i cui alunni non raggiungono i risultati previsti dalla media nazionale vengono progressivamente dismessi. Chiusi. Gli alunni trasferiti in altri istituti in distretti più lontani con gravi disagi ai ragazzi stessi, alle famiglie, solitamente già disagiate, e gli insegnanti? Gli insegnanti vengono licenziati o degradati. In altri termini al danno si aggiunge la beffa. Non solo insegnanti e popolazione studentesca vengono sottoposti a condizioni di lavoro e di studi difficili, ma se non adempiono, come è evidente che non possono, agli obblighi imposti dissennatamente vengono dirottati altrove, nel limbo con classi sempre più numerose e sempre meno adatte all’apprendimento proficuo e all’insegnamento tout court. Come se ciò non bastasse, loro sono andati anche oltre esternalizzando l’istruzione. Da un paio di lustri circa sono sorte come funghi scuole paritarie interamente finanziate da soldi pubblici, le Charter Schools che, a differenza di quelle pubbliche, non hanno standard da rispettare nemmeno in merito alle qualifiche richieste agli insegnanti ed i cui rendimenti scolastici sono in picchiata. Scuole, queste, sorte per rimpiazzare quelle pubbliche chiuse e frequentate da studenti provenienti dai ceti meno abbienti. Il doppio binario di scuole di serie A e quelle di serie B negli USA è già in atto.
E in Italia? Non è un pericolo, un rischio paventato. È già realtà anche in Italia, anche qui il percorso è tracciato, in un articolo pubblicato il 14 settembre 2013 sul quotidiano on-line la Repubblica, Salvo Intravaia ci informa che il decreto-scuola appena varato dal Consiglio dei Ministri e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale obbligherà i docenti i cui studenti non hanno ottenuto buoni risultati nelle prove INVALSI ad un aggiornamento obbligatorio senza retribuzione aggiuntiva perché si ritengono i responsabili del mancato profitto dei loro alunni. Dove sarà la maggior parte di questi docenti? Nelle regioni meridionali d’Italia. Strano, vero?
[i] Umberto Galimberti, L’ospite inquietante, il nichilismo e i giovani; Giangiacomo Feltrinelli, “Serie Bianca”, Milano 2007, p. 38
[ii] Ibid., p. 40
[iii] Hannah Arendt, Vita Activa, Einaudi-Torino, 1958, p. 11
[iv] Ibid., p. 13
[v] Hannah Arendt, op. cit., p. 13
[vi] Umberto Galimberti, op. cit., p. 47