Capitolo 4 – Dalla “riforma” Moratti ai giorni nostri

A. La scuola delle tre “i”

La Riforma Moratti, nota anche come la riforma della scuola delle tre “i”: inglese, informatica e impresa  racchiude un po’ la filosofia ispiratrice della legge in questione. Di queste intenzioni solo  l’ultima “i” è stata attivamente perseguita, ovvero quella connotata come “impresa”: come fare impresa e come trasmettere agli studenti del futuro il desiderio di inventarsi imprenditori ed essere essi stessi “capitale umano e cioè, produttori ben attrezzati”[115]. Del resto era quella a costo zero, le altre due avrebbero comportato un investimento economico nel settore pubblico che, ovviamente, il governo e non solo quello di Berlusconi, non poteva permettersi. Questo è in effetti il filo rosso – modifiche sostanziali a costo zero e anzi con ingenti risparmi derivanti dai tagli lineari – che lega questa legge e i suoi decreti delegati alla precedente autonomia scolastica fortemente voluta e poi anche strenuamente difesa dal predecessore di Letizia Moratti, il ministro L. Berlinguer, ed è un filo rosso tutto politico tirato dalle lobby degli industriali. Per la prima volta nella storia repubblicana sia i sedicenti progressisti e sia i conservatori si trovano uniti nel perseguimento di un disegno politico, come è stato delineato nei precedenti capitoli, che porta chiara l’impronta sì dell’UE, ma sotto stretta dettatura dell’ERT e delle lobby industriali. Per comprendere bene l’impatto che questo pacchetto di leggi ha avuto sulla scuola italiana e il perché fu varato bisogna prima dare uno sguardo al trattato di Lisbona del 2000.

– Il trattato di Lisbona e il successo formativo degli studenti (2000)

 Il consiglio europeo di Lisbona riunitosi per individuare obiettivi e strategie operative atte a sostenere la crescita economica, l’occupazione e la coesione sociale all’interno dell’Unione (da notare l’uso del lessico che ben dissimula i reali obiettivi sottesi), nel contesto specifico della società dell’informazione e della conoscenza e nella prospettiva di una mobilità professionale e di studio stabilisce che il servizio erogato dalle istituzioni scolastiche deve essere rispondente alle esigenze dell’utenza e del territorio specifico (le scuole, dunque, non più come istituzioni dello stato che garantiscono un diritto allo studente e cittadino, ma solo un servizio come un altro e come tale deve soddisfare le esigenze dell’utente che è cosa ben diversa dal cittadino, inoltre soddisfare le esigenze del territorio e questo è un chiaro riferimento alle imprese di quel territorio) e che ciò può essere assicurato grazie all’autonomia scolastica in termini di autonomia didattica, organizzativa, di ricerca, sperimentazione e sviluppo.

Inoltre, stabilisce che il sistema di istruzione dei paesi membri ha l’obbligo di raggiungere e promuovere il successo formativo garantito degli studenti entro il 2020; non di garantire mezzi e strumenti affinché gli studenti siano in grado di raggiungere gli apprendimenti come obiettivi previsti, al contrario garantire il risultato; da notare che il termine “successo” indica che l’approccio è, ancora una volta, di tipo aziendale e commerciale. Nella riunione dell’anno successivo al Consiglio europeo di Stoccolma (marzo 2001) si introduce il concetto di qualità e valutazione dei sistemi di istruzione europea in un’ottica di standardizzazione sia dei contenuti sia di obiettivi finali da perseguire; attraverso il controllo incrociato dei dati acquisiti, si prefigura altresì un controllo costante attraverso indicazioni che le scuole dovrebbero seguire e che ne mortificano le peculiarità nazionali e identità culturali. È dunque in questo contesto che va letta la cosiddetta riforma Moratti e come ben si lega alla precedente Autonomia Scolastica e spiega anche l’introduzione delle prove INVALSI che, appunto, hanno come scopo la standardizzazione dei contenuti e della valutazione.

La riforma Moratti[116]

Il primo obiettivo conseguito fu quello di abolire la riforma dei cicli a firma di T. De Mauro che era succeduto a V.le Trastevere a L. Berlinguer; attua però i principi di fondo, come ad esempio sminuire il ruolo della conoscenza procedendo verso l’abbassamento del livello educativo in linea con quanto  iniziato con Berlinguer e la sua autonomia scolastica[117].

Tra i più importanti cambiamenti attuati si segnalano, innanzitutto l’abbassamento dell’obbligo scolastico da nove a otto anni di studio, il moltiplicarsi di indirizzi di studio, ma ben più importante il fatto che viene ridisegnato l’intero sistema della secondaria di secondo grado con i licei che rimangono di competenza dello Stato, mentre l’istruzione tecnica e professionale, insieme alla formazione professionale, diventano competenza esclusiva delle Regioni in contrasto con quanto sancito dal titolo V della Costituzione[118] e l’introduzione delle Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati e il profilo di fine ciclo che stabilisce, da una parte, il profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del primo ciclo di istruzione (scuola primaria e scuola secondaria di primo grado); mentre, dall’altra assicura che ogni scuola manterrà la potestà autonoma nel perseguire gli obiettivi generali formativi e quelli specifici di apprendimento attraverso l’elaborazione dei piani di studio personalizzati dai docenti.

In buona sostanza, con questa modifica i programmi ministeriali non avranno più valore prescrittivo in quanto saranno gli obiettivi generali e specifici ad essere d’ora in avanti vincolanti[119]. Il che significa, sempre secondo la normativa, che spetta ai docenti interpretare i bisogni e le aspettative dei discenti adottando i metodi didattici e i contenuti che più ritengono utili a sviluppare le potenzialità dei singoli nel contesto classe al fine di mettere gli studenti in condizione di poter raggiungere gli obiettivi prefissati e successivamente tradurli in pratica trasformando le capacità in competenze e qui bisogna aprire una parentesi, perché con l’idea dei piani di studio personalizzati  avanza anche l’ideologia secondo la quale, come sostiene Baldacci, le doti naturali di ciascuno giustificano la selezione scolastica, pertanto soltanto alcuni dimostreranno di essere portati per lo studio mentre altri solo per il lavoro manuale e andranno “orientati” verso la formazione professionale[120]; come dire che solo alcuni possiedono le capacità cognitive per dedicarsi ad attività intellettuali e dunque non è grazie alle conoscenze apprese a scuola che si possono scoprire e valorizzare.

Le Indicazioni Nazionali perciò, secondo il legislatore, mantengono il principio secondo il quale i piani di studio conservano un nucleo fondamentale a livello nazionale a tutela delle tradizioni culturali e dell’identità nazionale nel rispetto dei bisogni e aspetti di interesse precipui alle regioni e ai territori locali, iniziando pertanto un processo di decentralizzazione dell’istruzione, per contro però, con l’introduzione delle prove INVALSI[121] finalizzate a controllare attraverso verifiche nazionali standardizzate la qualità complessiva dell’offerta formativa e dei livelli di apprendimento per valutare il livello culturale degli studenti si ottiene che, da un lato, eliminando il valore prescrittivo dei programmi ministeriali fa intendere di voler riconoscere e dare risalto alla funzione docente, offrendo loro maggiore autonomia e flessibilità nella scelta dei metodi e dei contenuti per raggiungere gli obiettivi vincolanti e, allo stesse tempo, dall’altro lato, si fissano dei parametri di misurazione quale strumento tecnico, ritenuto idoneo dal decisore politico, per la valutazione del sistema e la qualità dell’istruzione che nella pratica vuol dire che i docenti debbono rendere conto del loro operato in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi programmati e che corrispondono agli standard nazionali di prestazione del servizio surrettiziamente quindi spingendoli alla pratica del teach to test. Il tutto, come si può ben notare, in piena sintonia con le raccomandazioni espresse nel Trattato di Lisbona del 2000.



Diritto/Dovere allo studio, obbligo scolastico e l’alternanza scuola-lavoro

La riforma Moratti introduce altri due cambiamenti importanti, forse un po’ sottovalutati, il primo è l’introduzione del concetto inedito di diritto-dovere all’istruzione e alla formazione[122] che prevede la possibilità riservata allo studente tra i quindici e i diciotto anni di età che non intende proseguire gli studi di inserirsi nel percorso alternativo denominato Alternanza Scuola-Lavoro[123]al fine di potenziare competenze utili al mercato del lavoro. Quindi, trasformando il diritto allo studio nel diritto-dovere si consente, di fatto, agli studenti di abbandonare la scuola, e tuttavia poiché possono aderire al percorso di formazione tramite l’alternanza essi non vengono considerati come numeri calcolabili nella statistica relativa alla dispersione scolastica, una mossa puramente politica per evitare di prendersi cura degli adolescenti che ingrossano le fila della dispersione, altro che successo formativo garantito.

Corre l’obbligo però di sottolineare l’importanza delle parole. Si badi bene dunque, da un lato con questa riforma si riduce l’obbligo scolastico da nove a otto anni di frequenza scolastica e dall’altro si introduce il concetto di diritto-dovere all’istruzione e alla formazione. Ma le due cose non sono affatto equiparabili e qui si incorre in un fraintendimento che non riguarda solo gli studenti, in qualche caso la terminologia trae in inganno anche tanti docenti. Per chiarire l’equivoco allora bisogna tornare indietro all’epoca in cui si rese necessario istituire l’obbligo scolastico per costringere i genitori a mandare i figli a scuola anziché al lavoro in tenera età. L’obbligo pertanto era previsto per i genitori, non certo per gli studenti, anzi è proprio a tutela dei discenti. Viceversa il concetto di diritto-dovere è riferito espressamente allo studente che ha sì il diritto allo studio ma esso si configura, secondo questa introduzione inedita, anche come dovere nei confronti della società. Un dovere però, sostiene questa riforma, che può essere espletato non necessariamente attraverso un’istruzione scolastica, ma può essere assolto anche attraverso la formazione professionale. Di fatto si tratta di un tranello, si consente ai quindicenni di abbandonare la scuola senza che vengano statisticamente inclusi nei dati della dispersione e solo al fine di assolvere la politica e, dunque, lo Stato dall’obbligo di garantire a tutti gli studenti il diritto allo studio attraverso la rimozione degli ostacoli[124]. Questi ultimi rimangano del tutto invariati, si cambia solo la nomenclatura e non certo per tutelare gli studenti. Quanto alla alternanza scuola-lavoro, che successivamente la riforma Renzi renderà obbligatoria per tutti gli indirizzi di studio, ancora una volta, propagandata come l’applicazione del sistema di formazione duale alla tedesca ma che di fatto è un’, nella realtà italiana si traduce in un tentativo pasticciato che risulta in sfruttamento di lavoro minorile. Intanto in Germania è prevista solo per quegli studenti che scelgono appunto la formazione professionale e non è assolutamente prevista per gli indirizzi di studio liceali. Ma ben più importante, in Germania lo studente viene regolarmente retribuito per le ore di prestazione lavorativa svolta. Al contrario il sistema italiano prevede che lo studente non venga affatto retribuito e che questo percorso di formazione si svolga facendo essenzialmente affidamento sulla disponibilità delle imprese di prendersi in carico uno studente a cui fare formazione. Oltretutto l’onere di collocare gli studenti nelle aziende è lasciato interamente alle scuole che, ovviamente, fanno riferimento al territorio. È evidente che in quelle zone in cui lo sviluppo industriale è in forte ritardo e dove le imprese sono di numero sensibilmente inferiore rispetto ad altre zone del paese non solo le scuole riscontrano serie difficoltà nella collocazione degli studenti, ma con l’introduzione dell’obbligatorietà a seguito della L. 107/15 si è persino determinato un uso quasi illecito dell’alternanza scuola-lavoro[125]. Nei fatti, come si può constatare, un sistema ben diverso da quello a cui si disse che era ispirato che sottrae tempo prezioso allo studio senza nulla aggiungere alla formazione, anzi in alcuni casi favorendo lo sfruttamento di manodopera minorile a costo zero con danni arrecati anche all’occupazione, perché mai assumere personale aggiuntivo se si può avere qualcuno da addestrare per svolgere determinate mansioni senza dover retribuirlo?

Tutto ciò a dispetto di quanto sosteneva Antonio Gramsci, ossia che “occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un  mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio, a domandare «facilitazioni». Molti pensano addirittura che le difficoltà siano artificiose, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. Lq questione è complessa. Certo il fanciullo di una famiglia tradizionale di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psico-fisico; entrando già la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sui suoi compagni, ha un’orientazione già acquisita per le abitudini famigliari: si concentra nell’attenzione con più facilità, perché ha l’abito del contegno fisico (…) molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un «trucco» a loro danno (quando non pensano di essere stupidi per natura): vedono il signore (e per molti, nelle campagne specialmente, signore vuol dire intellettuale) compiere con scioltezza e apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, pensano ci sia un «trucco»(…) Se si vorrà creare un nuovo strato di intellettuali, fino alle più grandi specializzazioni, da un gruppo sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini conformi, si avranno da superare difficoltà inaudite”[126]. Con buona pace della retorica attuale che vuole il docente

facilitatore che motiva gli studenti e trova metodi didattici alternativi che scaccino via la noia e tengano conto del sempre più basso livello di concentrazione degli studenti.

Infine, tra le cose che più ci interessano di questo pacchetto normativo, della riforma Moratti, vi è l’introduzione altresì di un nuovo requisito per l’accesso alla docenza, ovvero le laurea specialistica ed il tirocinio obbligatorio, al fine di consentire a tutti i docenti pari dignità professionale e per migliorare la qualità della funzione docente di tutti gli ordini e gradi della scuola[127]. Altra curiosità da segnalare è che durante questo governo Berlusconi il ministero prende il nome di Ministero dell’istruzione e Università e Ricerca con l’accorpamento dei precedenti Ministero per la Pubblica Istruzione e Ministero per l’Università, perdendo l’aggettivo “pubblica” che è un chiaro segno della filosofia che sottende queste pratiche politiche.

Sarà poi nel 2006 il nuovo governo di centrosinistra con Fioroni ministro della pubblica istruzione che viene reintrodotta la dicitura originaria e che riporterà l’obbligo scolastico a 16 anni di età dello studente, rimettendo ordine anche nell’istruzione tecnica e professionale chiarendo che spetta allo Stato il rilascio dei diplomi mentre alle Regioni fa capo solo la qualifica triennale della formazione professionale, ciò fa sì che l’istruzione tecnica e professionale torni di competenza esclusiva dello Stato, infine vara nuove indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e del primo ciclo incentrati sulla continuità e sui “traguardi di competenze”[128].

B. La riforma Gelmini e i tagli lineari epocali

Il ministero retto da Maria Stella Gelmini, esponente di spicco di Forza Italia, di concerto con l’allora ministro delle Finanze, Giulio Tremonti, è l’artefice del più grande taglio di finanziamenti statali alla scuola italiana. Alla fine di questa massiccia operazione,  la finanziaria del 2008 con la quale si varano “disposizioni urgenti in materia di istruzione e università”[129], si conteranno tagli per ben nove miliardi e mezzo di euro mai più recuperati. I nodi cruciali di questo ingentissimo risparmio di spesa pubblica, nei fatti una serie di tagli lineari, sono: innanzitutto, la reintroduzione dell’insegnante unico prevalente alla scuola primaria e, quindi, l’abolizione dell’insegnamento per moduli, quale attuazione degli obiettivi di razionalizzazione[130]; sempre in quest’ottica il tempo pieno viene consentito solo se con congruo numero di richieste da parte delle famiglie purché le scuole siano dotate di strutture adeguate e due docenti per classi disponibili, eventualmente coadiuvati da docenti di IRC o di inglesi con titoli e/o requisiti richiesti. Il progetto formativo integrato, inoltre non fa nessuna differenza tra attività svolte al mattino e quelle pomeridiane[131].

In aggiunta con i decreti di riordino degli istituti di istruzione secondaria di secondo grado attua una serie di tagli a discipline curricolari che porterà ad un taglio considerevole di cattedre, tra le più importanti, si segnalano: la riduzione di ore di latino al liceo linguistico, si passa dall’insegnamento della disciplina per tutti i cinque anni all’insegnamento nei soli primi due anni di liceo; viene eliminato l’insegnamento di geografia sostituita nel primo biennio dei liceo con l’insegnamento di geo-storia a cui viene accorpato anche l’insegnamento di “cittadinanza e costituzione” con valutazione[132]; allo stesso tempo, per quanto riguarda il liceo classico si rafforza la lingua straniera anche nel secondo biennio e nell’ultimo anno, oltre ad area matematico-scientifico[133]; storia dell’arte viene soppressa nei primi due anni dell’istituto tecnico per il turismo, lasciando l’insegnamento negli ultimi tre, così come si riducono le ore di diritto. Negli istituti tecnici viene superata la codocenza con riduzione consistente di compresenza tra i docenti di teoria e gli insegnanti tecnico pratici di laboratorio, in questo taglio rientrano, ad esempio, i docenti di conversazione di lingua straniera, tra gli altri[134]. Ma è il riordino degli istituti professionali che provoca maggiori danni, infatti si abolisce l’esame di qualifica del terzo anno pertanto gli studenti sono tutti obbligati a proseguire fino al quinto anno per conseguire il diploma e si elimina la terza area sostituita dal dispositivo di alternanza scuola-lavoro[135].

Per quanto riguarda il fenomeno delle cosiddette “classi pollaio” è sempre a questa riforma che bisogna far riferimento, infatti stabilisce che vi siano, per ogni classe, un minimo di 15 alunni fino ad un massimo di 26/27, ma anche 29 alunni che salgono addirittura a 32 alunni per classe se restano studenti da collocare. Tutto ciò senza prevedere un adeguamento delle strutture scolastiche progettate a suo tempo per un numero di alunni di gran lunga inferiore e quindi in barba a qualsiasi norma sulla sicurezza[136].

Riguardo al personale docente, le modifiche degli ordinamenti scolastici, ovviamente, impongono nuovi criteri da adottare per le dotazioni organiche, inoltre tutte le cattedre, degli istituti della secondaria di secondo grado, sono riportate a 18 ore e non saranno più consentite ore a disposizione, di solito utilizzate per le sostituzioni di colleghi, infine viene soppressa la salvaguardia della titolarità di cattedra per docenti della secondaria di secondo grado con cattedra con meno di 18 ore, quindi introducendo la categoria dei soprannumerari. La razionalizzazione delle risorse umane non risparmia nemmeno il personale ATA e alla fine di questa operazione il bilancio è di un taglio complessivo del personale del comparto scuola di ben il 17%, con una riduzione finanziaria che dal 2008 al 2012 si aggira al 10,4% in meno.

L’ultimo aspetto da analizzare, dal punto di vista normativo, è quello relativo alla valutazione degli alunni che prevede, anche in presenza di carenze che non consentono allo studente il pieno raggiungimento degli obiettivi di apprendimento fissati, l’ammissione alla classe successiva purché accompagnate con note ad hoc nei documenti di valutazione adottate dalle scuole[137], abbassando ancora di più i livelli di apprendimento.

C. Il ministro Brunetta e la campagna mediatica sui “docenti fannulloni”

A quanto illustrato sopra bisogna aggiungere anche un’abile operazione mediatica innescata da alcune dichiarazioni rilasciate dall’allora ministro per la pubblica amministrazione e innovazione, Renato Brunetta, che definisce gli impiegati della pubblica amministrazione e soprattutto gli insegnanti dei “fannulloni”, epiteto che fa il paio con altre dichiarazioni di Maria Stella Gelmini secondo la quale i docenti delle scuole del sud abbassano la qualità dei docenti italiani, rincarando la dose dicendo che i professori si vergognano davanti ai loro figli per il mestiere che fanno a causa delle basse retribuzioni percepite[138].

Questi attacchi mediatici continui hanno contribuito in modo consistente ad indebolire e la percezione che i docenti stessi hanno della dignità del loro operato e a minare quella dignità presso l’opinione pubblica che inevitabilmente si è concentrata più su queste esternazioni poco edificanti da parte dei nostri politici che sui tagli ingenti che la scuola stava subendo. Come si può notare, si tratta di una strategia ben congegnata che costruendo una mistificazione della realtà ad arte si individua nel corpo docenti il nemico comune perché additati dalla politica come “fannulloni”, appunto, impreparati e causa principale di un sistema di istruzione poco efficiente per spostare l’attenzione dai problemi reali e dai provvedimenti legislativi che il governo Berlusconi IV si apprestava a varare in piena continuità con gli esecutivi precedenti e l’autonomia scolastica di Berlinguer evidenziando quella condivisione trasversale di un preciso progetto per l’istruzione italiana e che, proprio come fa notare il CIDI (Centro d’iniziativa democratica degli insegnanti) secondo quanto riportato dalla rassegna stampa della FLC-CGIL, «Questo governo vuole disfarsi della scuola pubblica. Vuole devolverla alle Regioni. E in nome della libertà di scelta delle famiglie, aumentare la platea delle scuole private»[139] che è esattamente il progetto di Valentina Aprea, sotto-segretario all’istruzione e nota esponente di Forza Italia, nella cui proposta scrive che seppur il diritto all’istruzione abbia avuto nel tempo ricadute positive sull’alfabetizzazione di massa, ritiene sia altrettanto vero che tale sistema impedisca a famiglie e studenti la libera scelta delle scuole da frequentare tant’è che propone all’art.11 sulla decentralizzazione, al comma 2, la sua soluzione: «Ogni regione e provincia autonoma attribuisce le risorse finanziarie pubbliche disponibili alle istituzioni scolastiche accreditate, sulla base del criterio principale della quota capitaria: numero effettivo degli alunni iscritti a ogni istituto, costo medio per alunno in relazione al contesto territoriale, tipologia dell’istituto»[140].

In definitiva, come ogni strategia comunicativa impone, gli attacchi del ministro Brunetta in quella stagione politica ebbero l’effetto di preparare il terreno per trasformazioni imponenti riguardanti il sistema di istruzione sviando, abilmente, l’attenzione dell’opinione pubblica e catalizzandola su questioni inesistenti ma costruite all’occorrenza grazie ad organi di informazione compiacenti. Il piano, in parte, fallì perché quel governo nel 2011 fu commissariato dall’Unione Europea e al suo posto subentrò quello presieduto da Mario Monti che prosegue l’opera, ma su un altro fronte, come vedremo. La parte su cui ebbe, invece, grande successo fu proprio la macchina del fango che ancora oggi funziona mirabilmente quando c’è di mezzo il corpo docenti, sempre utile carpo espiatorio.

D. La riforma Renzi detta la “Buona Scuola”

Se possibile questa legge attacca, in modo definitivo, la scuola pubblica statale dritta al cuore e compie l’ultimo atto della distruzione avviata nella seconda metà degli anni ’90 con l’autonomia scolastica. Paradossalmente il colpo di grazia viene assestato, ancora una volta, da un sedicente governo di centro sinistra con i voti di milioni di elettori che avevano dato il loro consenso per un programma elettorale del tutto disatteso, anzi tradito clamorosamente. La legge in questione consta di un solo articolo e ben 212 commi, in ognuno di questi o quasi, ricorre con insistenza un avvertimento:

 All’attuazione  del  presente  comma  si provvede  nell’ambito  delle  risorse   finanziarie   disponibili   a legislazione vigente e della  dotazione  organica  dell’autonomia  e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.[141]

“Senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica” ricorre con insistenza come un mantra, così come è ricorrente il richiamo al “lavoro”, la Legge 107/2015, nota anche come la “Buona scuola” o “Riforma Renzi”, è la nemesi della scuola della Costituzione e, come asserisce nel comma 1, il suo compito principale fa leva sulle “competenze” non meglio specificate, così come non chiarisce come intenda contrastare le disuguaglianze socio-culturali e territoriali senza investimenti, tuttavia riprende termini in uso e di impatto mediatico come “garantire successo formativo e di istruzione permanente dei cittadini” dando “piena attuazione alle autonomie scolastiche”. In questi pochi accenni si evince la piena continuità con i precedenti governi in tema di istruzione.

Ed è, inoltre, la celebrazione della scuola neoliberista, tutta la L. 107/15 è pervasa da questa ideologia. È certificato nero su bianco, in modo chiaro e senza alcuna ambiguità, anzi se ne fa vanto; è la scuola fondata sul lavoro, al servizio dell’impresa che deve produrre “capitale umano”[142] che, secondo la definizione che ne da l’enciclopedia Treccani, rappresenta la “qualità della prestazione erogata dal detentore, concorrendo ad aumentare la produttività di un’impresa e a qualificarla, influenzandone i risultati” e dunque “(…) l’insieme di capacità, competenze, conoscenze, abilità professionali e relazionali possedute in genere dall’individuo”[143], così almeno recita la Treccani. È per formare il buon produttore conformista, come sostiene Massimo Baldacci[144], un profluvio di “potenziamento delle competenze” di ogni tipo e in ogni ambito, linguistico con il CLIL[145], matematico-logiche e scientifiche [146], pratiche, musicali, nell’arte e nella storia dell’arte, cinema, media; potenziamento delle conoscenze giuridiche ed economico-finanziarie, educazione all’auto-imprenditorialità.[147] C’è di tutto e di più in questa legge[148], la valorizzazione della scuola come comunità (…) aperta al territorio (…) comprese organizzazioni del terzo settore e le imprese[149] (anche questa è una dicitura ricorrente, caso mai dovessimo scordarcene dell’apertura all’ingresso dei privati e delle imprese nella scuola pubblica e statale). C’è l’apertura pomeridiana, la riduzione del numero di alunni per classe[150], l’incremento delle ore dell’alternanza scuola-lavoro (nel frattempo trasformata in PCTO – Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, a proposito di mistificazione delle parole)[151] resa obbligatoria per tutti gli indirizzi di studio e in netto contrasto con anni ed anni di lotte e sacrifici delle precedenti generazioni per affrancare i figli dal bisogno del lavoro e consentire loro di studiare liberamente; c’è la valorizzazione di percorsi formativi e individualizzati[152], l’individuazione di percorsi formativi e sistemi funzionali alla premialità e alla valorizzazione del merito[153], la definizione di un sistema di orientamento, perfettamente in linea e in continuità con la riforma Moratti e l’idea di selezione scolastica che emerge dalle cosiddette doti naturali – chi è portato allo studio e chi ai lavori manuali –  è il determinismo biologico che va, dunque orientato -, come ci ricorda ancora Baldacci[154]. Il tutto, ovviamente: “senza ulteriori oneri per lo Stato”, come da avvertenze generali.

La realizzazione di questo miracolo è previsto nel comma 2 dove si legge che l’organizzazione degli organi collegiali “è orientata alla massima flessibilità, diversificazione, efficienza ed efficacia del servizio scolastico” e proprio perché le parole sono importanti quelle chiavi qui sono “flessibilità dell’organizzazione” e “servizio scolastico”. Seppur apparentemente di segno positivo, infatti flessibile è sempre meglio che rigido perché offre un’idea di apertura, di possibilità alla sperimentazione, ma qui il richiamo alla flessibilità organizzativa è da intendere in un altro senso. Ovvero poiché le scuole, offrono un “servizio” (offerta formativa), dunque non garantiscono più un diritto del cittadino, esse devono soddisfare le richieste delle famiglie e degli studenti e, al contempo, soddisfare le esigenze del territorio e cioè della politica locale e delle imprese, oltre alle associazioni del terzo settore. Ne deriva che l’azione didattica su cui deve esprimersi il Collegio dei Docenti è adesso funzionale alla creazione di quel capitale umano già citato e il dispositivo di cui dispone il Collegio dei Docenti per realizzare tutto ciò è il PTOF (Piano Triennale dell’Offerta Formativa, già POF di Berlingueriana memoria) e nel quale va anche esplicitato il fabbisogno di organico per realizzare le attività curricolari ed extracurricolari previste anche dal Piano di Miglioramento che si prefigura costante e continuo, senza mai raggiungere una meta definitiva, non deve esserci mai un approdo, un fine da raggiungere, la crescita dev’essere infinita.

L’altro aspetto da sottolineare è che con l’introduzione, al comma 5, dell’organico dell’autonomia che confluisce negli ambiti territoriali[155] a cui bisogna aggiungere anche il piano straordinario di assunzione creando posti di potenziamento[156],  la L. 107/15 produce una sostanziale differenziazione tra docenti, come è stato già sottolineato, infatti da una parte ci sono quelli assunti in precedenza che, finché non fanno richiesta di trasferimento rimangono titolari su scuola[157], e tutti gli altri confluiti nell’ambito territoriale che sono a disposizione delle reti di scuole e quindi dei dirigenti, con tutto ciò che da qui consegue, come ad esempio maggiore ricattabilità e minore libertà di docenza; proprio il rafforzamento dei poteri dei dirigenti scolastici è il terzo aspetto da mettere in rilievo[158], sono appunto loro che gestiranno direttamente i docenti sui posti di potenziamento stabilendo quali progetti dovranno realizzare tra quelli previsti dal PTOF, sono inoltre autorizzati ad usare questi docenti per le supplenze fino a dieci giorni[159]. Tra l’altro i dirigenti possono attingere all’organico dell’autonomia per scegliere fino al 10% dei loro collaboratori da inserire nello staff di dirigenza[160], apparentemente sono tutte misure finalizzate essenzialmente a realizzare un contenimento di spesa, pertanto si potrebbero persino considerare misure di buon senso se nonché istituiscono un’ulteriore disparità tra docenti perché questi ultimi sono inevitabilmente sottoposti alle direttive dei dirigenti; ai dirigenti inoltre viene assegnata anche la libertà indiscriminata della chiamata diretta[161]  – attualmente sospesa, ma fino a quando non è dato sapere – dando alla dirigenza pubblica ulteriori prerogative di tipo prettamente aziendalista. A completamento del rafforzamento dei poteri dirigenziali si segnala, inoltre, anche l’assegnazione del cosiddetto “Bonus di merito” ai docenti in base a criteri stabiliti dal comitato di valutazione di cui il dirigente scolastico è presidente e tra i cui componenti vi sono adesso anche rappresentanti dei genitori e, per la secondaria di secondo grado, degli studenti. Criteri che nulla hanno a che fare con le capacità didattiche dei docenti e che invece, generalmente, attengono ad attività aggiuntive per le quali già percepiscono compensi accessori. Quest’ultimo dispositivo di premialità è in fase di revisione proprio in questi giorni per cui potrebbero esserci dei cambiamenti in vista.

La Legge 107/2015, ovviamente è a firma della ministro Stefania Giannini, ma è stata così preponderante la propaganda attuata dall’allora presidente del consiglio, Matteo Renzi, che ancora oggi vi si riferimento come la “riforma Renzi” mentre la definizione che lui volle, ossia  “Buona Scuola” è ormai usata con spietato sarcasmo. D’altra parte essa fu strenuamente osteggiata da tutto il corpo docente che il 5 maggio 2015 è passato agli annali come la giornata di sciopero forse più partecipata dagli anni delle contestazioni con circa il 90% di adesioni, perché a differenza delle altre modifiche apportate in questi trent’anni sottotraccia e graduali, l’arroganza con la quale questa fu varata rimane impressa nella memoria di molti, si deve anche aggiungere che il pasticcio dell’algoritmo impazzito che assegnò cattedre alla rinfusa e senza il minimo rispetto dei punteggi nelle graduatorie è avvenuto proprio sotto questo governo. Un pasticcio, tuttavia, pubblicizzato come una grande opera di assunzione nella scuola, tacendo opportunamente però che quel grande piano di assunzioni era stato ordinato da un sentenza della corte europea che imponeva al governo italiano di stabilizzare tutti i precari della scuola che avevano avuto già un contratto di 36 mesi[162]. Eppure, oltre all’uso improprio delle parole volto scientemente alla mistificazione della realtà con un enorme contributo offerto dai mezzi di informazione nazionali, è sempre utile ricordarlo, questa legge è soprattutto il condensato, in perfetta continuità, di tutto il peggio che si potesse fare all’istruzione pubblica perché è questa legge che, come abbiamo delineato fin qui, che dà piena attuazione all’autonomia scolastica, che è l’inizio di tutto, trasformando definitivamente la scuola in azienda e a servizio delle imprese nonostante tutta la retorica che vuole lo studente al centro dell’istruzione e della scuola.





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