Capitolo 3 – AUTONOMIA SCOLASTICA / LEGGE BASSANINI (1997)

A. La gradualità degli interventi attuati cela i forti legami e le pressioni indebite delle grandi lobby sulla politica

Come delineato nei capitoli precedenti l’attenzione della politica italiana nei confronti del sistema di istruzione è stato negli anni contrassegnato da misure spesso contraddittorie e tendenzialmente classiste, volte più alla conservazione di un sistema sociale suddiviso in classi che ad una reale spinta riformatrice; persino la dichiarata intenzione espressa con i Decreti Delegati di aprire la scuola e l’università ad una maggiore partecipazione attiva e quindi ad una più concreta democratizzazione dei processi decisionali che avrebbe dovuto coinvolgere tutti i soggetti interessati, nei fatti si traduce, come afferma Massimo Baldacci, nel mantenimento dell’esistente senza cambiare davvero niente[69]. L’unico cambiamento concreto determinato dalla spinta innovativa si ha con la riforma della scuola media unica nel 1962, continua Baldacci, mentre l’eccessiva burocratizzazione caratterizzante i già citati decreti delegati della seconda metà degli anni ’70 ne depotenzia l’efficacia[70].

Ne consegue che l’unica vera riforma strutturale che rappresenta anche una visione del sistema di istruzione italiano rimane indubbiamente la Riforma Gentile del periodo fascista che appunto ne è una sua rappresentazione plastica. Nemmeno il movimento studentesco del 1968 riesce a smuovere l’immobilismo della politica italiana in materia di istruzione facendo sì che ogni tentativo di cambiamento rimanga frammentario e la scuola della Costituzione un’utopia che tale rimane tutt’ora perché nel frattempo alla cosiddetta rivoluzione del ’68 – a cui tanti attribuiscono il disastro culturale dipanatosi sotto i nostri occhi –, fa seguito, in realtà il trionfo del capitalismo neoliberista avviato dalle politiche attuate nei primi anni ’80 da Margaret Thatcher e Ronald Reagan che mettono fine a quella speranza di maggiore giustizia sociale che aveva tanto animato le giovani generazioni dei decenni precedenti. Il crollo del muro di Berlino e la definitiva capitolazione dell’Unione Sovietica con conseguente conclusione della guerra fredda, apre, infine, la strada alla globalizzazione che sancisce l’apoteosi dell’economia di mercato globale come già auspicato dalla Tavola Rotonda Europea degli industriali che si era ben preparata all’inedita sfida della competizione globale che abilmente trasferisce dal livello nazionale a quello individuale introducendo nel dibattito politico concetti come l’individuo che diventa imprenditore di se stesso, la pratica del life-long learning che, a dispetto del suo significato intrinseco, impone al lavoratore contemporaneo una formazione continua a sue spese, o in alternativa, a spese dei sistemi di istruzione dei vari paesi membri dell’UE, al fine di restare competitivo sul mercato del lavoro in rapido e costante cambiamento, perciò, come si è già rilevato precedentemente, non è più l’azienda a doversi occupare dell’aggiornamento professionale dei suoi dipendenti bensì è il lavoratore stesso che se ne deve far carico. È, infatti, anche in quest’ottica che gli industriali italiani si battono strenuamente per l’abolizione dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, perché solo attraverso la flessibilità in uscita dei lavoratori la responsabilità della formazione del dipendente può essere fatta valere concretamente, battaglia vinta mirabilmente grazie al sostegno del governo Renzi.

L’azione di condizionamento politico condotta con paziente perseveranza dall’ERT in Europa è adottata con grande abilità dal suo omologo italiano, ovvero l’associazione no-profit TRELLE al cui interno troviamo anche un’altra associazione no-profit molto attiva per ciò che concerne l’istruzione italiana, la Fondazione Agnelli, che, di fatto, ha come scopo la realizzazione della scuola neoliberista e, sempre Baldacci ci fa notare che è esattamente ciò che accade a partire dagli anni ’90[71], infatti sottolinea che anche le relazioni sociali devono conformarsi alla competizione globale e tra i nuovi concetti introdotti con termini scelti con cura c’è quello di “capitale umano” che, Baldacci spiega, è l’insieme di conoscenze e competenze utilizzabili nel processo produttivo tecnologicamente avanzato.

Pertanto l’individuo imprenditore deve essere egli stesso il capitale umano capace di sviluppare le competenze funzionali al processo produttivo, e la scuola deve diventare fabbrica di capitale umano secondo il principio funzionalista e produrre nuovi produttori ben attrezzati alla concorrenza[72]  la scuola allora diventa, altresì, la principale agenzia attraverso cui realizzare questo progetto ambizioso, perché, secondo la visione neoliberista, è assolutamente necessario educare precocemente alla competizione sin dall’infanzia e per far si che si possa ben introiettare il principio della concorrenza tra pari si introduce un altro cavallo di battaglia del neoliberismo, l’idea della meritocrazia che incoraggia la pratica delle differenze tra chi merita e non merita il successo. La scuola deve diventare palestra di competizione realizzando un sistema a cascata per cui gli istituti devono competere tra loro per conquistare e attirare iscritti, i docenti saranno in competizione tra loro e, a loro volta, spingeranno alla competizione i loro studenti realizzando pienamente la spinta competitiva necessaria alla produzione di capitale umano e quindi dell’individuo imprenditore di se stesso generando così massima efficienza[73].

Almeno questa è la propaganda che è stata divulgata per anni con la piena compiacenza dei media nazionali che dei termini “competitività” e “flessibilità” per i lavoratori hanno fatto un mantra e la panacea di tutti i mali del mercato del lavoro italiano, nei fatti, come si è visto, però si è trattato della mistificazione della realtà, in quanto la competitività ha imposto una drastica riduzione dei salari da lavoro dipendente con altrettanto drastica riduzione del potere di acquisto; mentre la flessibilità ha significato maggiore libertà da parte dei datori di lavoro di licenziare dipendenti e, inoltre, una proliferazione senza eguali di contratti di lavoro atipici privi di ogni diritto e tutela del lavoratore, in conclusione tutto ciò ha creato instabilità e precarietà continue con gravi ripercussioni sociali a tutto tondo.

Per quanto riguarda la scuola questo meccanismo di competizione a tutti i livelli realizza la scuola-azienda progettata sin dal 1989, nel suo primo report, dall’ERT. È da queste basi che prende avvio quella che si rivelerà essere una trasformazione non solo strutturale, ma addirittura radicale del sistema di istruzione italiano ed ingannevolmente detta “riforma Berlinguer”, ovvero la realizzazione dell’autonomia scolastica[74] varata nel 1997 da un governo di centro sinistra che accettando come ineludibile la cosiddetta terza via di Blair scende a compromessi con il neoliberismo e che il rapporto Delors nel 1996 sintetizza come “un compromesso tra solidarismo e competizione”[75], ma che finisce per far sì che la seconda fagociti il primo perché, di fatto, la competizione è la precondizione per l’autonomia scolastica: un istituto deve togliere iscritti ad un’altra scuola per sopravvivere ed evitare il dimensionamento[76].

B. Competizione tra scuole e la mistificazione delle parole

– Gli istituti scolastici ricevono finanziamenti sulla base del numero degli iscritti

La concorrenza tra scuole è dunque un elemento essenziale per l’attuazione dell’autonomia scolastica i cui fini però non sono solo di migliorare l’organizzazione amministrativa rendendo le scuole più efficienti, come dichiarato dalla propaganda governativa, al contrario il disegno perseguito dall’autonomia scolastica di Luigi Berlinguer è molto più sottile e profondo, ovvero sviluppare lo spirito competitivo dell’individuo perciò l’uso delle parole è molto curato e preciso, mai lasciato al caso in quanto è attraverso le parole che si veicolano le idee.

Il meccanismo statale che da attuazione all’autonomia scolastica poggia su un pilastro portante, l’esistenza di ogni istituto è ancorato al numero di iscritti; lo scopo dichiarato con questo nuovo dispositivo di legge è la razionalizzazione della spesa pubblica il cui parametro principale adottato è esclusivamente quello numerico[77], infatti, una scuola potrà avere una sua propria dirigenza e servizi amministrativi propri solo se si raggiunge il numero di iscritti previsto per legge, è altresì interessante notare che nelle note al preambolo di questo decreto del Presidente della Repubblica si evidenzia che i fondi risparmiati da questo nuovo meccanismo saranno destinati “all’incremento  dei fondi di  istituto per la retribuzione accessoria del personale, finalizzata al sostegno delle attività e delle iniziative connesse all’autonomia delle istituzioni scolastiche”[78]; detto in parole povere, più studenti sono iscritti in una scuola e più soldi lo stato assegnerà a quella scuola. Al contrario se il numero di iscritti scende sotto una determinata soglia quell’istituto sarà accorpato ad un altro con tutte le conseguenze derivanti anche sull’organico, infatti questo meccanismo ha ripercussioni anche sul numero di cattedre e dunque sul personale docente, collaboratori scolastici e personale ATA. Evidentemente le scuole che rischiano la chiusura o l’accorpamento, in gergo tecnico che rischiano il dimensionamento – in effetti dire esplicitamente “chiusura” o “accorpamento” avrebbe allarmato troppo l’opinione pubblica –, sono quelle dei centri urbani più piccoli, o le scuole di montagne e delle piccole isole già fortemente penalizzate in quanto a servizi o che possono contare solo sulla potenziale iscrizione della popolazione scolastica locale poiché il territorio su cui insistono gode di poche, se non nulle opportunità, di crescita culturale da offrire e quindi scarsissime possibilità di attirare iscritti da comuni vicini. Pertanto seppur la scuola in moltissimi contesti del nostro paese rappresenta spesso l’unico presidio di legalità, l’unica presenza tangibile dello stato anziché valorizzarla e potenziarla, in nome dell’efficienza dell’impiego di risorse pubbliche e del taglio di sprechi – come se la scuola possa mai rappresentare uno spreco –, esse vengono eliminate.

In questo quadro diventa ben chiaro che il numero di iscrizioni è un elemento imprescindibile per la sopravvivenza degli istituti scolastici e dunque la competizione tra scuole inevitabile perché ognuna di esse deve essere in grado di attirare studenti che sottrae alle altre. Questa costruzione ad incastro determina a sua volta una mutazione profonda nel rapporto tra studente e scuola. Infatti, lo studente diventa sempre più un cliente da soddisfare e la scuola ente erogatore di servizio e non più istituzione dello stato. La scuola azienda diventa così realtà.

Perché la trasformazione sia completa mancano ancora due tessere importanti al mosaico ben ideato da Berlinguer. La prima di queste è l’introduzione del POF (Progetto dell’Offerta Formativa, diventato poi PTOF, ovvero triennale, con la Buona scuola del governo Renzi) che da concretezza all’autonomia scolastica. La seconda è la progressiva gerarchizzazione dei rapporti di lavoro interni alla scuola.

– Il Progetto di offerta formativa

La scuola azienda per attirare iscritti deve differenziarsi dagli altri istituti e questo è ciò a cui serve il POF[79], offrire una proposta formativa allo studente-cliente che adesso sceglie la scuola che ritiene più vantaggiosa ai fini della sua futura occupazione lavorativa. Scelta che non di rado avviene in modo inconsapevole per tanti motivi contingenti cui torneremo ad analizzare più nello specifico. Bisogna invece segnalare sin d’ora che l’acronimo POF non contempla affatto il termine “istruzione” mentre pone l’accento sull’offerta “formativa” che le scuole propongono ai futuri e potenziali iscritti. L’esclusione le termine “istruzione” a favore di “formazione” è significativa rispetto alla scuola che la riforma Berlinguer intende attuare, per capire meglio è sufficiente soffermarsi sui diversi significati dei due termini.

Il termine “istruzione” significa “l’opera svolta per istruire attraverso l’insegnamento”[80] e che secondo la Costituzione italiana è volta all’emancipazione dell’individuo dal bisogno che, attraverso la conoscenza e il sapere acquisisce gli strumenti necessari per sviluppare il proprio pensiero autonomo e critico diventando dunque cittadino consapevole e in grado di partecipare attivamente alla vita democratica del paese. Né lo si deve confondere con “educazione” perché, a dispetto di quanto accade oggi con sorprendente frequenza, essi non possono essere assunti come sinonimi, in quanto “educazione implica un’azione diretta sullo spirito più che sull’intelletto”[81]. Mentre “formazione”, per quanto ci riguarda, vuol dire: «preparazione e all’addestramento specifici (…) l’insieme delle conoscenze e cultura acquisite in un determinato settore specifico»[82]

L’offerta formativa del POF dunque è finalizzata a fornire agli studenti gli strumenti più utili per inserirsi nel mercato del lavoro dopo il completamento degli studi, ma è già ciò che è preposta a fare l’istruzione e formazione professionale che fa capo alle regioni, e torna dunque la questione competizione. Oltretutto lo scopo dell’istruzione non è affatto quello di preparare gli studenti al mondo del lavoro, come già sottolineato anche nella premessa di questo lavoro. Appare dunque evidente che la scuola concepita da Berlinguer si discosta quasi radicalmente da quella che è la tradizione culturale e umanistica italiana che ha dato l’impronta più incisiva al sistema di istruzione italiano e cha la mantiene nonostante tutto, nonostante l’impegno costante in questi anni per cancellarla. No, la scuola concepita dal centro sinistra al governo nell’ultimo scorcio del secolo scorso e nei primi anni del nuovo millennio risponde con sorprendente e cieca obbedienza ai dettami delle lobby di industriali italiane ed europee. Una scuola che fabbrica capitale umano, forma dei produttori e il buon cittadino è il buon produttore pienamente conforme al sistema capitalista neoliberista e, per dirla ancora con Massimo Baldacci, questa scuola contraddice il principio secondo cui l’istruzione deve avere come fine la crescita dell’uomo che è fine a se stessa, dunque l’uomo ne deve essere il fine e mai deve, invece, essere usato come mezzo[83].

L’offerta formativa è finalizzata soprattutto ad attirare iscritti; ne deriva che non è più l’indirizzo di studio con le sue specifiche discipline e la didattica a motivare gli studenti nella scelta della scuola da frequentare, con l’autonomia scolastica serve altro per attirare nuovi iscritti-clienti. E’ da questa inedita esigenza che derivano le proposte spesso alquanto fantasiose di attività integrative generalmente svolte durante gli orari pomeridiani e progettate con ansia di prestazione crescente che assale tanti docenti e rispettivi dipartimenti e che purtroppo non tiene quasi mai conto della realtà dei fatti. Basta fare un giro veloce tra i vari siti di tanti istituti scolastici per accorgersi che i loro PTOF sono colmi di proposte spesso irrealizzabili e foriere delle più cocenti delusioni.

– Il PTOF e il mito delle scuole private di tradizione anglo-americana

Purtroppo si tende ad emulare un’idea di scuola anglo-americana che nell’immaginario collettivo italiano richiama tanto – generalizzando, s’intende – quella delle scuole private come nel famoso film, spesso citato dai docenti più ispirati, L’attimo fuggente, una specie di mitizzazione superficiale e ingenua se in buona fede. Che male c’è in fondo a voler migliorare, si potrebbe obiettare, ma il punto è proprio questo e cioè che non si tiene in debito conto il contesto generale quando si adottano prassi che funzionano altrove, e sul fatto che funzionino ci sarebbe anche da discutere.

Lasciando da parte l’assurdità stessa della competizione fra scuole pubbliche statali è necessario invece, a mio parere, capire perché scopiazzare, in maniera approssimativa poi, il modello anglo-americano delle scuole private è velleitario e fallimentare. Dunque, la prima osservazione riguarda il curriculum scolastico che nelle scuole italiane è vincolante e caratterizza i vari indirizzi di studio da cui lo studente può scegliere, ma si sceglie l’indirizzo appunto. Il numero di ore di lezioni è stabilito a monte insieme a quelle destinate ad ogni disciplina. Questa è materia di esclusiva prerogativa ministeriale, ciò significa che la scelta di un indirizzo comporta un determinato percorso di studio ed il raggiungimento di obiettivi ben definiti che richiedono un altrettanto ben definito impegno scolastico e domestico autonomo da parte dello studente. In pratica il profitto scolastico di ogni studente non è e non può essere limitato alla regolare frequenza delle lezioni, bensì richiede un ulteriore impegno di studio autonomo ed extra-scolastico di norma, perché sia proficuo, è meglio se espletato nelle ore pomeridiane. Evidentemente qualsiasi altra attività pomeridiana troppo impegnativa sottrae tempo ed energie allo studio e all’approfondimento autonomo.

I fautori di quest’idea di scuola sostengono che queste attività extra-curricolari e integrative sono un valido arricchimento culturale e nessuno lo nega, ciò nondimeno sarebbe bene sottolineare che fare troppe cose insieme non è mai salutare e spesso anzi crea frustrazione, ma si dovrebbe anche considerare, e questa è la seconda osservazione, che il modello originale che si vuole imitare richiede un impegno personale e autonomo da parte degli studenti di gran lunga inferiore così come corrisponde ad esso una preparazione altrettanto inferiore dal punto di vista delle conoscenze di base e non solo, a parità di età anagrafica degli studenti e degli anni di studio effettuati.

Trascurare o, peggio, ignorare questo aspetto significa essere in mala fede o stupidi. Basterebbe documentarsi e oggi grazie ad Internet non costa alcuna fatica, anche in questo caso è sufficiente visitare qualche sito di scuole straniere per verificare che il monte ore delle discipline curricolari è significativamente inferiore rispetto a quello italiano, che il piano di studio è a scelta degli studenti, salvo per poche materie obbligatorie, altrettanto sensibilmente ridotta però è preparazione, inoltre il titolo di studio della secondaria non dà accesso all’istruzione universitaria, non ha alcun valore legale e non è minimamente professionalizzante, come pertanto tutto in netto contrasto alla propaganda mainstream che vorrebbe farci credere ben altro generando confusione e creando false aspettative. Tant’è vero che nei paesi anglo-foni usati come esempio per accedere ad un percorso di studio superiore ed universitario anche chi è in possesso del diploma della scuola secondaria deve superare dei test nazionali standardizzati[84] e, infine, per ottenere una preparazione anche lontanamente simile a quella dei nostri studenti delle superiori loro devono frequentare almeno due anni di college dopo la secondaria[85] e conseguire l’Associated Degree (negli Stati Uniti) propedeutico al Bachelor’s Degree, l’equivalente del diploma di laurea breve italiano.

Private è poi la parola chiave, si tratta di istituti in cui gli studenti pagano delle rette e spesso sono scuole molto esclusive che selezionano i propri studenti innanzitutto sulla base della loro appartenenza socio-economico e culturale ottenendo quindi dei livelli alquanto omogenei. In un contesto del genere anche le attività extra-curricolari e integrative sono lautamente finanziate e rispondenti alle esigenze e alle aspettative degli studenti e delle loro famiglie. Un siffatto contesto è in totale contraddizione con il nostro dettato costituzionale e non si può non tenerne conto. Perciò lo sforzo di tante scuole nel proporre attività integrative mirabolanti senza poter garantire qualità d’istruzione e profitto scolastico non è più da ricondurre nell’alveo della mistificazione delle parole, bensì proprio della mistificazione della realtà.

Un’altra pratica inappropriata che si è diffusa in molte scuole, a partire dall’introduzione dell’autonomia scolastica, è quella di richiedere un contributo volontario[86] alle famiglie all’atto  dell’iscrizione, senza, sostengono coloro che giustificano questa prassi, non sarebbe possibile garantire molti servizi come corsi di recupero per gli studenti con debiti scolastici da sanare. Ciò non di meno giova ricordare che l’istruzione statale è gratuita, sono previste solo le tasse scolastiche che si versano per la secondaria di secondo grado; pertanto non andrebbe chiesto alcun contributo alle famiglie in quanto vessatorio e discriminatorio per tutti coloro che non possono permetterselo; ad ogni modo si tratta di contributo volontario che ogni scuola ha l’obbligo di specificare con chiarezza a studenti e famiglie con una comunicazione del tutto trasparente; tuttavia, si registrano sempre più spesso casi in cui agli studenti viene fatto intendere che senza il versamento di tale contributo non potranno accedere ad attività varie proposte dall’istituto, in alcuni casi è persino scritto nero su bianco compiendo un atto gravissimo perché crea e non risolve pratiche discriminatorie e perciò in piena  contraddizione con l’art. 3 della Costituzione.

Cionondimeno, mentre da un lato si piange miseria tanto da accettare, e giustificare persino, l’inammissibile pratica di chiedere contributi alle famiglie degli studenti delle scuole pubbliche statali, dall’altro, il ministro Berlinguer dispone un finanziamento di fondi pubblici alle scuole private, spesso confessionali, che diventano anche “parietarie”, ovvero istituti scolastici che forniscono un servizio pubblico, nonostante però non siano tenuti a tutti gli obblighi di legge previsti per le scuole pubbliche statali, quali rifiutare l’iscrizione di un alunno con bisogni speciali, adducendo vari pretesti, oppure non sono tenute ad assumere personale docente scorrendo le graduatorie; l’assunzione è a loro discrezione posto che il candidato abbia il titolo di studio previsto dalla legge. Un’ulteriore disparità di trattamento[87] che incide non poco e sui diritti dei lavoratori e sulla loro retribuzione.

– L’orientamento e la retorica del mercato

L’autonomia scolastica che introduce l’offerta formativa che le scuole devono proporre ai potenziali iscritti e alle loro famiglie introduce anche “l’orientamento”, un momento dedicato per consentire agli studenti dell’ultimo anno della scuola secondaria di primo grado (ultimamente viene proposto anche per la scuola primaria, ahimè!) di acquisire le informazioni necessarie per scegliere consapevolmente il loro futuro percorso scolastico. In genere si dà l’opportunità agli studenti di visitare varie scuole prima di scegliere o di assistere a presentazioni che pubblicizzano i vari istituti presenti sul territorio. Spesso i genitori si affidano ai consigli dei docenti e cercano quindi di indirizzare i figli verso quegli indirizzi, consigli che derivano per lo più dal profitto scolastico degli studenti. In molti casi ciò vuol dire che se il profitto di un alunno è alto lo si orienta verso un liceo, viceversa gli si consiglia un istituto tecnico o professionale, non dovrebbe essere questo il criterio, però lo è. Altre volte i ragazzi riescono ad imporre le loro scelte che vertono, in genere, sulla scuola scelta dalla maggior parte dei loro amici, o dalle attività extra curriculari proposte nel PTOF (Proposta triennale di offerta formativa) e durante gli open day. Per avere un’idea di quali possano essere queste attività extra curriculari o integrative è sufficiente leggere uno di questi documenti che si trovano facilmente nei siti di ogni istituto. Come è stato già segnalato, il PTOF è la cosiddetta carta d’identità dell’istituto ed è ciò che dovrebbe contraddistinguere una scuola da un’altra, rendere l’una più interessante dell’altra e attrarre nuovi iscritti. Tra le attività più gettonate anche dai genitori ci sono, ad esempio, le certificazioni linguistiche, i soggiorni di studio all’estero, laboratori di teatro, laboratori di scrittura creativa; le parole chiave che fanno accendere le lucette negli occhi di genitori e studenti, sono: innovazione, digitale e competenze. Ma il piatto forte quasi per tutti è, indubbiamente, il viaggio di istruzione, una volta volgarmente detto: “la gita” (anche oggi è chiamata così, poche illusioni in merito).

Paradossalmente ciò che sembra attirare maggiormente l’attenzione sono quelle attività che, in genere, richiedono un esborso da parte delle famiglie (alcune di queste attività, infatti, hanno costi anche alti a cui le famiglie devono provvedere interamente, altre vengono finanziate in parte con i cosiddetti contributi volontari chiesti alle famiglie al momento dell’iscrizione dei figli a scuola) e molto meno ciò che effettivamente si studia in quella scuola e quali conoscenze acquisirà lo studente che la frequenta. Da non dimenticare, ovviamente, il prestigio dell’istituto dato dalla reputazione di cui gode sul territorio e dallo studente-tipo iscritto, ovvero a quale ambiente di provenienza appartiene; le cronache [88]sono piene di istituti che pubblicizzano la loro peculiarità citando spesso il fatto che in quella scuola gli studenti provengono da un determinato milieu, che la presenza di stranieri e di studenti diversamente abili è molto contenuta e che si tratta di una scuola molto blasonata.

Va da sé che le scuole dell’autonomia scolastica devono adeguarsi alle richieste dello studente-cliente e dunque nell’illustrare la tipologia di scuola si mette più l’accento su ciò che dovrebbe essere accessorio anziché soffermarsi su ciò che è invece il core-business dell’indirizzo.

Ne consegue che questo tipo di orientamento non fa affatto gli interessi degli studenti che devono scegliere il loro futuro percorso di studi e non aiuta i genitori a guidare al meglio i propri figli in questa che è, a tutti gli effetti, una delle scelte più importanti che gli adolescenti sono chiamati a fare. Da essa, infatti, dipende la loro disposizione d’animo nell’affrontare le sfide successive, il grado di interesse che il percorso di studio scelto suscita in loro, la loro personale motivazione che è determinata da quell’interesse e da ciò che potranno o vorranno fare in seguito. Inoltre, ciò che vorranno fare in seguito può anche scaturire da ciò che studiano sia che decidano di proseguire con lo stesso indirizzo sia che lo scartino per indirizzarsi altrove. Questa è un’età di passaggio ed è necessario anche mettere in conto che i cambiamenti che subiranno potranno modificare i loro interessi, le loro attitudini e le loro aspirazioni.

Ciò di cui si parla poco durante l’orientamento è invece l’attitudine del singolo, ovvero cosa gli piace, quali materie trova più stimolanti, in cosa è più capace, quali sono le sue passioni, quali le sue fantasticherie, quali sono i suoi sogni, sono realistici e realizzabili o semplici vagheggiamenti adolescenziali? Ciò di cui si parla troppo è ciò che dovrebbe essere utile in prospettiva, ovvero quale professione potrebbe essere più richiesta, quali le previsioni del mercato del lavoro, pur sapendo che qualsiasi settore oggi ritenuto un investimento non è certo che lo sia per gli anni successivi. Ma soprattutto gli adulti che dovrebbero assistere questi adolescenti nelle loro scelte dimenticano che tutto ciò alla loro età non è effettivamente così concreto.

Infine, ciò su cui non ci si sofferma forse abbastanza è che uno studente delle scuole secondarie di primo grado può rivelarsi ben diverso durante gli anni delle scuole secondarie di secondo grado proprio perché, come si è detto, questa è una fase della crescita dell’individuo transitoria e passibile di innumerevoli cambiamenti che modificano anche la personalità dalla pubertà all’adolescenza, fino all’età adulta. Ed è su questo aspetto, in continuo divenire, che non ci si concentra né quando un docente delle medie esprime il proprio parere sul tipo di scuola più adatta ad uno studente, né quando si accolgono gli studenti tredicenni agli open day; nel primo caso il docente vede solo lo studente pre-adolescente che ha davanti e che magari ha seguito sin dall’età di 10/11 anni; nel secondo caso si tratta solo di un potenziale iscritto che si “deve” arruolare.

Consapevolmente o no, di fatto i docenti, in questi anni di applicazione dell’oramai famigerata autonomia scolastica, si sono resi complici di questo sistema perverso. Perverso perché contribuisce e avalla la segregazione di classe, infatti, un siffatto sistema ghettizza chi non ha la fortuna di essere nato nell’ambiente giusto, sia dal punto di vista geografico, sia da quello socio-economico e culturale. Un siffatto sistema agevola una svolta privatistica della scuola pubblica perché consente a chi invece quella fortuna ce l’ha di potersi scegliere l’istituto “migliore” (secondo le classifiche stilate da Eduscopio[89]) e frequentare anche la gente “giusta” per continuare a tessere le “giuste” relazioni, esattamente come avviene nella rete delle Whittle School[90] partita di recente negli USA, dove la frequenza costa più di quarantamila dollari statunitense, ma con l’aggravante che in Italia questo sistema è a costo zero per i “clienti” e tutto a carico dello Stato e a discapito di chi avrebbe proprio maggiore bisogno dello stato.

Perciò, a differenza della retorica che vuole lo studente al centro e che blatera di scuola inclusiva, di questi principi, i docenti, si sono progressivamente dimenticati e al centro viene messo così, l’istituto scolastico in cui prestano servizio, dimenticandosi, per altro, che essi sono funzionari dello stato e non dell’istituto specifico, dimenticandosi che tutte le scuole del paese sono tenute a garantire un buon livello qualitativo di istruzione a tutti e soprattutto a quegli studenti che hanno difficoltà di partenza, che provengono da zone del paese che non hanno tutte le opportunità disponibili ad altri più fortunati. La partecipazione dei docenti, dunque, agli open day, è una forma di complicità e al di là della personale serietà, della personale oggettiva esposizione dei meriti di un istituto, del personale senso di appartenenza a quell’istituto o meno, al di là di tutto ciò, ogni docente dovrebbe aver bene chiaro in mente che il diritto di istruzione è uguale per tutti, che è lo stato che deve rimuovere gli ostacoli laddove esistono per fornire a tutti i cittadini pari opportunità, che sono diritti sanciti dalla nostra costituzione, ciò significa che è lo Stato che deve incrementare i finanziamenti e gli investimenti e non certo le famiglie a versare “contributi volontari”.

Ogni docente dovrebbe avere ben chiaro in mente che ogni singola scuola deve essere attrezzata e sicura, pertanto nessuna scuola dovrebbe essere migliore di un’altra. Dunque, adeguarsi supinamente ad un sistema che ha creato nei fatti scuole di serie A in territori opulenti e ricchi di opportunità sia culturali, sia in termini di sbocchi lavorativi e scuole di serie B in territori disastrati da uno sviluppo economico frenato, quando non addirittura osteggiato, senza alcuna o con pochissime prospettive future, senza alcuna o pochissime opportunità di arricchimento culturale significa, in buona sostanza – anche se in buona fede, e in tanti lo sono – rendersi complici di scelte politiche scellerate e danno oltretutto manforte a chi la scuola pubblica la critica facendo leva sui risultati delle prove INVALSI[91] e OCSE-PISA[92].

– La gerarchizzazione dei ruoli interni alla scuola

La seconda tessera del mosaico cui si è accennato prima, ovvero la gerarchizzazione dei ruoli all’interno della scuola viene realizzata tramite l’iter legislativo avviato con la legge Bassanini che, appunto, con l’autonomia scolastica assegna agli istituti scolastici “personalità giuridica” e gestione finanziaria e che ha la sua attuazione  pratica attraverso la qualifica dirigenziale assegnata ai capi d’istituto non più presidi, bensì dirigenti scolastici[93] che hanno a disposizione uno staff di figure intermedie quali sono le funzioni strumentali, introducendo peraltro i concetti chiavi ed inediti di “valutazione e rendicontazione” con ricadute importanti sul piano dei rapporti interni, da un lato, e sull’ulteriore rafforzamento dell’idea di scuola azienda, dall’altro.

La gerarchizzazione dei ruoli all’interno della scuola crea così uno sbilanciamento, nocivo soprattutto per quanto riguarda il rapporto professionale tra DS e docenti e ciò perché i due ruoli spesso configgono perseguendo obiettivi diversi e contrastanti. Infatti, se i DS sono incaricati di gestire un istituto come se si trattasse di un’azienda che sta sul mercato e quindi, sono soggetti a “far quadrare i conti”, a chiudere i bilanci in attivo, a soddisfare sempre e comunque il cliente (studenti e famiglie), a rispondere del proprio operato agli stake holder, o portatori di interessi comprendenti enti locali (politici) e attività produttive del territorio (imprenditori); al contrario, il docente ha un altro e divergente obiettivo da perseguire assegnatogli dalla Costituzione[94] e  ribadito da altri dispostivi di legge e cioè, “l’esplicazione essenziale dell’attività di trasmissione della cultura, di contributo alla rielaborazione di essa e di impulso alla partecipazione dei giovani a tale processo e alla formazione umana e critica della loro personalità”[95], e ha anche il compito di valutare i discenti sulla base dei risultati da essi conseguiti nel loro percorso scolastico.

In sintesi il docente deve impartire un’istruzione e la libertà di docenza assegnatagli dalla Costituzione, stabilisce che è libero di decidere i contenuti, in base alle linee guide e alle indicazioni nazionali emanati dal ministero e la metodologia didattica ritenuta più adatta per conseguire i risultati stabiliti per obiettivi da raggiungere. L’operato del docente non può essere misurato con parametri uguali per tutti poiché il rapporto insegnamento-apprendimento è binario, nel senso che il ruolo esercitato dal discente è altrettanto importante; perciò se il discente non partecipa attivamente facendo la propria parte (studiare con impegno e costanza, innanzitutto) e si sottrae invece al cosiddetto dialogo educativo, il suo insuccesso scolastico non può essere attribuito al docente. Ne consegue che il prodotto dell’azienda scuola, ovvero il successo scolastico dei discenti non può essere garantito dal docente, il quale non può obbligare i suoi studenti a studiare. Non che il docente non abbia alcuna possibilità di affascinare il discente, al contrario, il docente può esercitare una forte ascendenza nei confronti, non di un solo studente, bensì di tutta una classe. Il fatto è che non esiste una ricetta buona per tutti gli studenti, o per tutte le classi. A volte scatta la scintilla, altre volte il nulla e nonostante siano stati messi in atto tutte le strategie a disposizione. È il fattore che non è sempre controllabile.

Il rapporto tra docenti e studenti, come tutti i rapporti umani, è soggetto ad innumerevoli variabili e queste cambiano anche a seconda del singolo studente. Oltretutto, i ragazzi che frequentano le scuole sono di età molto diverse e parlare di scuola e di rapporto docente-studente, come se non ci fosse alcuna differenza e che riflettere sui discenti della primaria o su quelli della secondaria fosse la stessa identica cosa significa assimilare tutti i discenti in una sorta di stereotipo. Il prodotto, appunto e magari in serie.

A questo aspetto, imprescindibilmente umano e, quindi, fuori da ogni controllo in quanto del tutto imprevedibile e ingestibile attraverso “formulette”; alla scuola come problema per eccellenza del cosiddetto “sistema Italia, si deve anche aggiungere la delegittimazione sociale della cultura come valore intrinseco (“con la cultura non si mangia”, disse Tremonti), ma ancor più gravi sono stati almeno i tre aspetti seguenti: il primo è sicuramente quello che ha assegnato, ad un certo punto, un valore utilitaristico alla scuola e allo studio in generale. Si è diffusa l’idea secondo cui – grazie ad una certa visione politico-economica post 1989 – che lo studio e la scuola devono essere funzionali al lavoro, perciò se dopo il diploma non si trova lavoro la responsabilità non è del mondo produttivo che non crea posti di lavori, o che non attribuisce salari adeguati a fronte delle mansioni svolte o delle aspettative create dalla retorica utilitaristica, bensì è della scuola che non è in grado di fornire la formazione pratica (anche se non è affatto la scuola chiamata a fare formazione, questo è sempre bene sottolinearlo) richiesta dalle aziende e quindi incapace di incrociare richiesta/offerta[96].

Il secondo aspetto, che influisce e non poco anche sull’incremento dei dati relativi alla dispersione scolastica, è il crollo pressoché totale del concetto secondo il quale la scuola rappresenta la grande possibilità di riscatto sociale offerto a tutti, questa speranza e opportunità è stata, in passato, un’enorme spinta propulsiva, ha costituito la motivazione più forte per milioni di italiani fino all’introduzione dell’autonomia scolastica, infatti si torna sempre lì.

Infine, il terzo aspetto conseguente a quelli precedenti è la questione del “merito”. Una questione “merito” ben diversa dalla perniciosa vulgata attuale. Non a caso il “merito” per il quale si chiedeva a gran voce il rispetto era quello riconosciuto a chi, con grandi sacrifici e superando innumerevoli ostacoli e limiti di partenza, attraverso il proprio impegno, i propri sforzi e la propria tenace determinazione conseguiva appunto quel riscatto sociale grazie allo studio e all’opportunità offerta dalla scuola della Costituzione; il merito riconosciuto contro la raccomandazione nepotista e clientelare.

Questo era il merito che si voleva venisse riconosciuto e non certo ciò che si intende oggi per “merito”, ovvero esattamente ciò che si intendeva combattere: le raccomandazione per appartenenza politica o di classe (si ricorda a proposito l’infelice, quanto ormai celebre, battuta del ministro Poletti secondo la quale per trovare lavoro i giovani facevano meglio a tessere relazioni, magari sui campi di calcetto anziché inviare curriculum vitae), le vie preferenziali per chi gioca sporco e usufruisce di privilegi di nascita assolutamente iniqui. Né si intendeva fare riferimento alla meritocrazia tanto cara agli anglofoni legati ad ideologie le cui radici risalgono alla corrente politica dei puritani di Inghilterra derivanti dal calvinismo, tornato in auge.

Un ultimo aspetto da sottolineare con forza è che non è certo la scuola di massa emersa dalla rivoluzione sessantottina ad aver determinato l’abbassamento dei livelli di apprendimento come una certa versione diffusa, strumentalmente a piene mani, vuol far credere all’opinione pubblica. La preparazione scolastica è stata progressivamente depotenziata non perché gli studenti non fossero all’altezza (ché se non lo sono è sempre a causa della scuola che non fa abbastanza, non del singolo docente, si badi bene, ma del sistema scuola, sia chiaro), bensì perché lo stato ha rinunciato, di fatto e nei fatti, all’applicazione dell’art. 3[97] della Costituzione e la politica, in modo trasversale, ha scelto di ridurre gli investimenti finanziari stanziati per l’istruzione.

– Il potere dei DS e la rassegnazione dei docenti

Sui rapporti gerarchici introdotti tra dirigenti e docenti è da sottolineare inoltre soprattutto la deriva autoritaria che si è manifestata con maggiore frequenza e, persino prepotenza, dall’applicazione della legge 107/15, imposta con determinazione, e spregio del dissenso quasi unanime culminato nello sciopero del 5 maggio 2015 che ebbe un’adesione altissima, da Matteo Renzi. Il rapporto già alquanto sbilanciato prima, come si è detto, con l’entrata in vigore della cosiddetta Buona scuola il senso di impotente frustrazione che affligge molti docenti è stato ulteriormente aggravato a causa di un meccanismo di accresciuti poteri concessi ai dirigenti scolastici.

Nella realtà concreta e della pratica quotidiana queste due figure professionali così importanti per il buon funzionamento dell’istituzione scolastica, entrambe dotate di pari dignità pur svolgendo ruoli diversi, anziché essere posti in condizione di operare in sinergia tra loro, in virtù di obiettivi, apparentemente, divergenti tra loro cui tendono, si trovano in molti casi in conflitto aperto. Un conflitto che, per mancanza di chiarezza normativa, degenera sempre più spesso in prevaricazione colpendo il docente su aspetti personali che hanno ripercussioni sulle condizioni di vita e dunque con riverbero anche su quelle professionali. Questa distorsione professionale è possibile non solo a causa dal fattore umano che, tuttavia è non meno incisivo, ma anche perché si avvale di diversi dispositivi solo apparentemente slegati fra loro.

Se è vero che l’azione di gestione di una scuola da parte del dirigente, specie per le scelte che attengono prettamente alla didattica, deve essere avallata dal collegio dei docenti che è organo preposto al controllo in questo senso con il compito preciso di deliberare le scelte didattiche a maggioranza e pertanto si avvale di un’ampia partecipazione democratica, è anche vero che sono tanti e vari gli strumenti che un dirigente può usare per condizionare le scelte compiute dal collegio dei docenti che dunque non è sempre pienamente libero di votare tenendo solo conto della bontà delle proposte fatte. Alcuni di questi strumenti possono addirittura configurarsi come vessatori.

Il primo di questi strumenti introdotti proprio dalla legge voluta dal governo Renzi riguarda l’organico dell’autonomia e per la precisione quello di potenziamento su cui possono essere spostati, a discrezione del dirigente, tutti i docenti in servizio in un istituto. La discrezionalità dei dirigenti sulla carta appare essere anche contenuta e sotto il controllo del collegio dei docenti che ha il compito di decidere quali docenti richiedere per il potenziamento allo scopo di migliorare l’offerta formativa triennale che la scuola offre ai suoi iscritti, inoltre, seppur vero che il dirigente ha facoltà di assegnare i docenti alle classi, è prerogativa del collegio dei docenti stabilire i criteri di tali assegnazioni a cui il dirigente dovrebbe attenersi. Sembrerebbe una procedura trasparente, imparziale e rispettosa dei rispettivi ruoli: quello dirigenziale che agisce di concerto con quello collegiale. Eppure nella pratica effettiva non è affatto così.

Infatti, come si è già evidenziato, l’organico dell’autonomia pone il docente in una situazione di debolezza negoziale complessiva. Se prima esisteva la titolarità di cattedra (già soppressa dalle precedenti modifiche apportate dalle precedenti ministre Moratti e Gelmini) che assegnava al docente stabilità e, appunto, un certo potere negoziale, adesso lo spauracchio di risultare soprannumerario e quindi ritrovarsi assegnato ad una rete di scuole presenti sul territorio e, a discrezione del dirigente, poi inserito su potenziamento, lo rende, con tutta evidenza nei fatti, facilmente ricattabile perché più vulnerabile. Una tale evenienza comporta condizioni di vita alquanto difficili con ripercussioni ineludibili sulle prestazioni professionali. È indubbio che essere assegnati su più scuole significa far fronte a riunioni su più istituti tra cui destreggiarsi con l’aggravante di dover districarsi tra organizzazioni delle stesse anche molto diverse perché l’autonomia scolastica consente ad ogni istituto di scegliere a suo piacimento, e significa anche gestire tipologie di indirizzo di studio e quindi tipologie di studenti molto variegati con aspettative, richieste ed esigenze altrettanto diversi. Nella pratica effettiva tutto ciò si traduce in un aggravio di carico di lavoro e di stress molto maggiore rispetto ad altri colleghi. Ma è la differenza stessa tra posto comune (ossia docenza in classe) e  potenziamento che significa non avere tutte le ore di servizio in classe bensì costretti ad adattarsi ad una flessibilità professionale molto dispersiva e talvolta poco appagante professionalmente che, nei fatti, produce una sensibile riduzione della libertà di docenza e  perciò discriminazione professionale. Bisogna ricordare che i docenti su potenziamento possono essere assegnati spesso solo a coprire i colleghi assenti, quindi essenzialmente ad effettuare supplenze, seppure sulla carta risultino essere insegnanti a tutti gli effetti.

Tuttavia, l’insegnante è tale se insegna appunto, se ha delle classi a cui impartire la propria disciplina, meglio se vi è continuità didattica, in quanto il suo lavoro può essere programmato in prospettiva e non solo a breve termine, ciò vuol dire porre le basi sin dall’inizio per poter sviluppare nei discenti un ampio raggio di conoscenze che prosegue anche negli anni successivi e fino al completamento del corso. Un insegnante che, al contrario, è assegnato su potenziamento, come dice il termine stesso, è preposto a potenziare ciò che fanno i colleghi nella classe, il suo è un lavoro di rinforzo; oppure può essergli richiesto dal dirigente di occuparsi di qualche progetto. Nella sostanza ha un ruolo all’interno dell’istituto dimezzato e  per certi versi al servizio del dirigente. La libertà di voto e di scelta all’interno del collegio è parimenti compromesso anche perché avendo pochi contatti con gli studenti di classi proprie si ha anche poca dimestichezza con le dinamiche di classe e con la didattica che si sceglie di adottare in seno al collegio.

Ma ci sono altri elementi che pregiudicano il buon funzionamento di un collegio dei docenti, tra cui la competizione fra docenti che in questi ultimi anni si è addirittura incoraggiata trasformandosi in rivalità; nell’attuale scuola-azienda il meccanismo della concorrenza è un leit motiv che, appunto, non ha prodotto maggiore efficienza, piuttosto si è articolata in maggiore divisione, d’altra parte se le scuole sono in competizione fra loro per attirare sempre più iscritti, anche i docenti si contendono gli studenti per sezione; ma non c’è solo questo a suscitare competizione, bensì un’inedita ambizione manageriale che si è improvvisamente impadronita di molti docenti che sgomitano per far parte dello staff di dirigenza e si adoperano per arricchire di progetti e attività extracurricolari l’offerta formativa; è tale l’attivismo di costoro da chiedersi quando trovano il tempo di entrare in classe e fare lezione e ancora più sorprendente che abbiano il tempo per preparare le lezioni e correggere compiti. La scelta di questi collaboratori è ovviamente a totale discrezione del dirigente e non potrebbe essere diversamente poiché ne devono condividere la visione politica di scuola che il dirigente persegue. Un altro aspetto che influisce molto sulla competizione tra colleghi deriva da una forma di valutazione del loro operato non proprio esplicita, ma pur sempre esistente sotto traccia, ovvero i livelli di prestazione conseguiti dagli studenti nelle prove INVALSI da una parte, tanto da spingere molti insegnanti ad adottare un approccio didattico non proprio ortodosso o consigliato, ossia il teach to test (addestramento al superamento delle prove) e dall’altra le certificazioni linguistiche presso enti appaltanti esterni. Infatti, seppur formalmente questi dati non vengono utilizzati per esprimere valutazione di merito sui docenti, ufficiosamente vengono comunque tenuti in considerazione. Infine, il bonus di merito completa il quadro, assegnato da una commissione che vede partecipi anche rappresentanti dei genitori e, solo per le scuole secondarie di secondo grado, quelli degli studenti; negli ultimi anni ha subìto alterne vicende fino a raggiungere il compromesso più recente di rientrare nel fondo d’istituto e quindi diventare materia di contrattazione tra dirigenti e RSU (Rappresentanze Sindacali Unitarie), ora pare sia stato messo in mora del tutto.

Da ultimo, a proposito di comportamenti formali e informali, purtroppo questi ultimi vengono adottati anche troppo spesso al fine di esercitare pressioni di vario tipo sui docenti. L’ambiente professionale della scuola è caratterizzato da troppe ambiguità che rendono il singolo docente spesso esposto e vulnerabile a un dispotismo che si è diffuso tra i dirigenti che, come evidenziato prima, sempre più spesso ricorrono ad una leadership autoritaria e sbrigativa, non c’è nemmeno tanto da stupirsi in fondo. La democrazia richiede tempo per riflettere prima di poter compiere scelte consapevoli e capacità di persuasione che richiede energie. È più efficiente ottenere tutto e subito. In effetti è proprio l’ambiguità delle norme che si prestano ad una varietà di interpretazioni, norme che dovrebbero regolare il rapporto di lavoro, ad accrescere la vulnerabilità dei docenti rendendoli dunque ricattabili. Accade, infatti, e con preoccupante frequenza che in nome di un principio di uguaglianza si tradisca quello di equità, per cui ne deriva un privilegio per alcuni e un grave danno economico e di condizioni di lavoro per altri; discrasie importanti che, tuttavia, non possono essere corrette nemmeno dalla contrattazione interna d’istituto poiché si tratta di prerogative esclusivamente dirigenziali che rarissimamente i dirigenti sono disposti a mettere in discussione, nemmeno per favorire la creazione di un ambiente di lavoro positivo ed equo per tutti. Eppure questo arroccamento produce anche condizioni di vita e non solo professionali fortemente lesive del benessere dei docenti.

Per capire gli effetti che si trasformano in privilegi per alcuni e danni per altri è necessario fare qualche esempio pratico. I privilegi, ovviamente, sono di quei docenti che risiedono nei medesimi comuni in cui insiste la scuola in cui si presta servizio e che hanno indubbiamente minori spese per il trasporto, nonché per il pranzo nei giorni – sempre più frequenti – durante i quali vi sono riunioni o attività pomeridiane; al danno economico si aggiunge anche quello relativo alla qualità di vita del docente pendolare, in molte circostanze, questa è considerevolmente abbassata sia per coloro che utilizzano i mezzi pubblici per viaggiare – non proprio modelli di efficienza – sia per coloro che non possono che usare mezzi propri. Senza entrare nello specifico dei costi vivi, quali potremmo annoverare usura del mezzo, spese di manutenzione, di carburante e pedaggi autostradali che, pure incidono non poco sul bilancio annuale; ciò che pesa molto di più è la gestione dei tempi morti, può capitare infatti, e purtroppo capita molto più spesso di quanto non si immagina, che tra la fine delle lezioni e la prima riunione passino anche cinque o sei ore e l’attesa magari è finalizzata ad una sola riunione di 60 minuti per ripetere lo stesso scenario nei giorni successivi, specie in occasione dei consigli di classe. Il docente che abita vicino alla scuola (nello stesso comune) può tranquillamente sfruttare quel tempo che intercorre tra un’attività e l’altra a suo piacimento senza minimamente soffrire del disagio cui è sottoposto il collega fuori sede. Ricordiamo, peraltro, che lavorare fuori sede non è certo una scelta, l’assegnazione di un docente ad un istituto è frutto di tante variabili che non serve elencare qui, ma è questa una di quelle situazioni che, ancora una volta, non favoriscono certamente il voto libero e privo di condizionamenti in sede di delibere del collegio dei docenti. A questo disagio oggettivo, appena descritto, ne subentra un altro, l’organizzazione dell’orario di servizio in una scuola, insieme a quello del calendario delle attività annuali, è predisposto dalla dirigenza, il primo è prerogativa esclusiva del dirigente, il secondo viene deliberato dal collegio dei docenti tramite votazione, ma è comunque pianificato dal dirigente o dai suoi collaboratori scelti a sua esclusiva discrezione, è sempre bene tenere a mente questo particolare. In entrambi i casi i criteri adottati sono uguali per tutti e senza tener conto ad esempio della composizione del collegio dei docenti, per cui se la maggioranza è composta da docenti che vivono in prossimità dell’istituto il risultato della votazione è scontato e le situazioni di svantaggio per altri componenti non viene nemmeno preso in considerazione perché non tange la maggioranza, ma così viene meno il principio di equità che dovrebbe anch’esso avere un peso. In alcuni casi può sorgere persino il sospetto che, trattandosi di attività obbligatorie, non si presti la minima attenzione a limitare i disagi e quindi a contribuire a creare un ambiente di lavoro positivo e rispettoso delle persone. Ciò crea anche un senso di svalutazione professionale perché la perdita di tempo e i disagi individuali possono, in alcuni casi, anche suscitare in chi li subisce una scarsa considerazione di sé e della propria professionalità. Inutile dire che queste prassi vengono attuate anche per vessare quei docenti considerati dai dirigenti contrastivi, di fatto essi hanno il potere materiale di rendere le condizioni di lavoro e la qualità della vita infernali e provocare persino danni alla salute.

Fermo restando che, come recita la normativa, la priorità è il buon funzionamento dell’istituzione cui tutti i soggetti coinvolti devono attenersi e fare in modo che venga garantita sempre, è pur vero che un ambiente di lavoro sano contribuisce notevolmente proprio a rispettare questa priorità: il buon funzionamento dell’istituzione scolastica.

Allo stesso tempo, non ci si può neanche stupire se, viste le varie circostanze, i diversi contesti e situazioni in cui ci si può trovare la democraticità del collegio dei docenti è fortemente compromessa. In condizioni simili e con rischi così alti di subire ritorsioni non c’è di che meravigliarsi se le delibere in collegio dei docenti vengano votate con maggioranze plebiscitarie, se i verbali riportano una discussione molto breve e spesso il dibattito interno è del tutto inesistente e se, conseguentemente, il controllo esercitato dal collegio dei docenti sull’azione dirigenziale è irrisorio e indegno di ciò che dovrebbe essere una partecipazione attiva e democratica. Se poi si dovessero cercare dati statistici che avvalorano le descrizioni di cui sopra, meglio non darsi pena, non se ne troveranno perché nessuno denuncia mai questo stato di cose, questi sono discorsi, lamentele che si fanno a mezza bocca, sotto voce, lungo i corridoi proprio per non farsi sentire e non attirare attenzione su di sé.

Se ne può concludere che la gerarchizzazione dei ruoli così sbilanciata e tutta a favore dei dirigenti che godono di una discrezionalità arbitraria così ampia è la causa principale di una progressiva esautorazione degli organi collegiali e non sorprende affatto che ci sia in seno alle scuole un eccesso di autoritarismo lesiva della professionalità dei docenti e dei loro diritti. Né la RSU (Rappresentanza Sindacale Unitaria) giova a dirimere conflitti interni o a garantire maggiore equità di trattamento, un po’ perché molte materie di cui si è discusso e che incidono così pesantemente sulle condizioni di lavoro dei docenti non rientrano nella fattispecie della contrattazione integrativa di istituto, un po’ anche per via di una normativa che se da un lato ha lo scopo di garantire a tutti il libero esercizio delle rappresentanza e, quindi, della candidatura, dall’altro, non mettendo paletti e affidandosi all’etica dei singoli individui e consentendo a tutti di candidarsi per svolgere la funzione, anche ai collaboratori e al Dirigente dei Servizi Generali e Amministrativi, non tiene conto di eventuali conflitti di interessi che possono insorgere. I rapporti sindacali, al pari di tutti gli altri organi collegiali interni alla scuola, che sono volti a favorire la partecipazione democratica, risentono anch’essi di un rapporto troppo sbilanciato tra i poteri del dirigenti e quello di tutte le altre figure partecipative dentro le scuole, pertanto anch’esse finiscono per essere facilmente ricattabili. Quindi anche questi sono da inserire contestualmente al fallimento certificato del consiglio di istituto, collegio dei docenti e consiglio di classe perché se è vero che sono i pesi e contrappesi che devono garantire il bilanciamento dei poteri democratici se essi non sono adeguatamente strutturati in questo bilanciamento il principio stesso ne è inficiato. Qualsiasi gruppo di potere necessita del contrappeso di un altro per evitare abusi, è questo il principio, nella scuola invece ci si affida alla buona fede dell’animo umano, ma perché mai coloro che lavorano a scuola dovrebbero essere imparziali per natura, non si capisce; così come non si capisce perché i genitori o gli studenti possano avere i requisiti necessari per decidere su come organizzare le attività scolastiche (la loro presenza in Consiglio di Istituto ha questa funzione); essi dovrebbero poter esprimere dei pareri riguardanti i loro legittimi interessi, ma non votare a pieno titolo su questioni che esulano dalla loro conoscenza e la cui capacità di giudizio non può che essere circoscritta al loro punto di vista parziale. Allo stesso modo delegare tutto il potere ai dirigenti (per quanto riguarda l’organizzazione) o ai docenti (nei consigli di classe) è controproducente e genera inevitabilmente delle distorsioni se non si tiene conto del fattore umano e non si prevedano modi per contro bilanciare i vari poteri.

È come se il legislatore si affidasse sempre solo alla buona fede delle persone anziché limitare quelle circostanze in cui gli abusi di potere possono essere dei rischi concreti. Perciò se da una lato un buon dirigente e/o un buon docente dovrebbero sempre attenersi alla normativa, è pur vero che se la normativa concede ampi margini di manovra, o al contrario rende le figure facilmente ricattabili, non è sempre detto che l’essere umano saprà resistere alla tentazione dell’onnipotenza o alla via di fuga facile e indolore per cui si vota pensando solo a difendere il proprio orticello, ad evitare fastidi e disinteressandosi della collettività e dei principi e valori che, come docenti, dirigenti e figure professionali, dovremmo incarnare.

C. Tra esami di maturità ed esami di stato

– La riforma Gentile e l’introduzione degli esami di maturità

Questo argomento merita uno spazio dedicato, sempre per mettere in evidenza che in effetti le trasformazioni che interessano la scuola sono molteplici sebbene, in questo caso specifico, condensati in pochissimi anni più recenti; essi furono introdotti con la riforma Gentile nel 1923 a conclusione del ciclo studi del liceo classico e del liceo scientifico, allora gli unici indirizzi di studio che consentivano l’ammissione agli studi universitari, addirittura per quanto riguarda il liceo scientifico ai suoi maturandi era preclusa l’iscrizione alle facoltà di Lettere e Filosofia e a quella di Giurisprudenza[98].

Essi si articolavano in quattro prove scritte, le prime due vertevano su italiano e latino ed erano comuni per entrambi licei, le altre due, per il liceo classico, una prova di greco e ancora un’altra di latino, in questa seconda prova il candidato era tenuto a tradurre dall’italiano al latino; per il liceo scientifico una prova di matematica e una di lingua straniera. Per quanto invece riguardava le prove orali, queste erano ben quattro; i programmi oggetto degli esami vertevano su tutte le materie dei tre anni di liceo classico e quattro di scientifico; il punteggio era separato per ogni disciplina prova di esame e i componenti della commissione erano tutti docenti esterni e, per la gran parte, docenti universitari. Infine, vi erano solo 40 sedi in tutto il paese per gli esami del classico e 20 per quelli dello scientifico. Il primo anno in cui questi esami furono introdotti, ovvero per l’anno scolastico: 1924/25 l’impatto fu notevole, infatti solo il 59,5% dei candidati del classico fu promosso e solo il 54,9% di quelli dello scientifico[99].

– Modifiche apportate durante la seconda guerra mondiale

Nel 1942, durante la seconda guerra mondiale, con a capo del ministero il ministro Bottai[100], si rese necessario apportare delle semplificazioni e, nel 1943 in pieno conflitto, l’esame fu sostituito da semplici scrutini finali. Nel 1951 il ministro Gonnella[101] ripristina gli esami di Gentile con alcune modifiche, la prima è che furono introdotti prima due membri interni nella commissione, poi passati ad uno; la seconda riguardava il programma materia di esami, sebbene, infatti vertesse ancora su tutti e tre anni di liceo, per i primi due anni erano previsti solo dei cenni.

– La rivoluzione del 1968

Ma è nel 1969, quindi un risultato delle proteste studentesche del sessantotto, che gli esami di maturità vengono radicalmente modificati ad opera del ministro Sullo[102], le prove scritte si riducono a due, la prima di italiano comune a tutti gli indirizzi di studio e la seconda specifica per ogni indirizzo diverso, per gli orali le prove erano due (con una materia a scelta del candidato), il punteggio massimo che si poteva conseguire era di 60/60 (il voto di ammissione non concorreva al voto finale degli esami) e la commissione era composta da soli membri esterni ad eccezione di uno interno, fu inoltre abolita la sessione di esami di riparazione a settembre, un altro elemento di grande importanza da sottolineare è che diedero libero accesso agli studenti di tutti i diversi corsi di studio all’iscrizione a tutte le facoltà universitarie. Introdotta come sperimentazione che avrebbe dovuto restare in vigore per due anni, di fatto rimase in vigore fino alla riforma Berlinguer[103]. Prima di quest’ultima bisogna anche citare la variazione apportata dal ministero a guida D’Onofrio[104], una variazione minima dovuta ad esigenze di risparmio di spesa che modifica i criteri nomina dei commissari esterni, dando priorità a quelli provenienti dal medesimo comune, o in subordine dalla stessa provincia e regione e da altre regioni solo come ultimissima ipotesi, fu applicata per la prima volta nel 1995.

– L. Berlinguer e l’introduzione degli esami di stato

La vera rivoluzione dell’esame di maturità avviene nel 1998, il primo aspetto da rilevare è che diventa per tutti esame di stato basato sulla verifica  e certificazione delle conoscenze, competenze e capacità dei candidati[105], con l’intento di valorizzare le lingue straniere. Consta di tre prove scritte, le prime due, come sempre, decise dal ministero e la terza proposta dalla commissione, il cosiddetto quizzone multidisciplinare e introduce i crediti[106] scolastici; la commissione è formata da 6/8 docenti ed è per metà interna e per l’altra esterna, il presidente è esterno. La votazione diventa 100/100 così distribuita: 45 punti per gli scritti, 35 per gli orali e 20 punti di credito che vengono attribuiti durante gli ultimi tre anni di scuola secondaria di secondaria tramite apposita tabella e sulla base della media del profitto scolastico conseguita in ognuno di questi ultimi tre anni dai candidati. Viene applicato per la prima volta a conclusione del secondo ciclo di studi per l’anno scolastico 1998/99.


– Il nuovo esame di stato e il sistema dei crediti

Questa è sicuramente l’ultima grande trasformazione che incide sia sugli esami di stato, sia sull’idea stessa di istruzione e di organizzazione scolastica. Il sistema dei crediti introdotto ne diventa un pilastro portante anche dal punto di vista concettuale. Esso infatti non si limita soltanto ad apportare modifiche sostanziali all’esame in sé, al contrario questo sistema cambia proprio l’approccio dello studente nei confronti della valutazione in generale e, in modo particolare, a partire dal primo anno del triennio. In effetti, a differenza degli anni precedenti in cui ogni anno scolastico si concludeva con una valutazione finale e dall’anno successivo si cambiava pagina ricominciando quasi da zero; con questo sistema invece alla media dei voti, partire dal primo anno del triennio, corrisponde un numero di crediti stabiliti da una tabella di conversione che a sua volta, sommato a quello dei due anni successivi, rappresentano la votazione di base dell’esame a cui si andranno ad aggiungere i voti di ogni singola prova per ottenere infine il voto finale dell’esame. È evidente dunque che ciascun anno del triennio ha un peso ben maggiore che nel passato. Fu presentato ovviamente come un sistema che intendeva valorizzare tutto il percorso scolastico dello studente ed il trionfo del merito.

Tuttavia ciò che fu del tutto ignorato dall’opinione pubblica, ma anche da chi nell’istruzione opera fu il fatto che questa modifica mette il marchio sugli studenti a partire dal terzo anno di scuola secondaria di secondo grado. Se prima l’errore commesso da uno studente per scarso impegno, per motivi di crescita personale (ricordiamo che i ragazzi in questa fascia di età sono in piena fase adolescenziale con tutto ciò che questo comporta in termini di cambiamenti profondi sia dal punto di vista fisico sia da quello psicologico e che, dunque, sono già sotto stress e aggiungervi anche quello della prestazione scolastica in modo così incisivo non giova certo alla loro serenità) per motivi famigliari o altro non comportava ripercussioni per il loro futuro, con questo nuovo sistema al contrario anche un unico errore pregiudica pure gli anni successivi perché un poco gratificante si ripercuote inevitabilmente su tutta la media scolastica del triennio abbassandone i crediti che servono per poter accedere all’esame con una buona votazione di partenza. Nella pratica si tratta di adottare una strategia che deve essere ben calcolata sin dall’inizio del triennio e se i ragazzi fanno fatica a programmare con così ampio anticipo e a lungo termine – a questa età tre anni hanno durata epocale – devono essere i genitori a vigilare bene affinché l’esito finale del percorso di studio dei loro figli non venga pregiudicato da un solo errore.

Questo dunque è uno dei motivi per cui gli studenti oggi si affannano così tanto per ottenere buoni voti, perché sanno, e se non lo sanno loro glielo ricordano i genitori, che i voti bassi andranno ad incidere sul voto finale dell’esame di stato che oggi molto più che in passato ha un’enorme valenza per l’iscrizione all’università. Ne consegue che lo studente di oggi studia per ottenere un voto alto, ne consegue che la competizione interna alla classe diventa in molti casi parossistica e anche il mezzo punto scatena scene di isteria alquanto imbarazzanti dando luogo talvolta a proteste molto vigorose da parte dei genitori che si precipitano molto spesso a scuola per avere conto e ragione del voto. Viceversa quegli studenti i cui genitori sono distratti, che non colgono appieno il valore che può avere anche un solo voto sono, per così dire, abbandonati a se stessi; questo comunque potrebbe anche spiegare perché negli ultimi anni si è visto aumentare quel fenomeno che molti docenti hanno definito come quello dei “genitori sindacalisti dei loro figli”. Non giustifica magari il comportamento di certi genitori ma può spiegarlo, così come spiegare anche che quegli studenti che sono privi di genitori che perorano la loro causa sempre e comunque qualche credito in meno lo rimediano fin troppo spesso.

Non sarebbe fuori luogo ritenere che parte della competizione e dell’ansia derivante dai voti negli studenti delle generazioni più recenti, specie se paragonati a quelli delle generazioni passate, possono essere ricondotte a questo nuovo sistema che genera indubbiamente, da parte degli studenti, un’ansia di prestazione continua anche perché la valutazione della prestazione scolastica non è cambiata nel senso che, pur in presenza di griglie dettagliate e trasparenti, i requisiti necessari per ottenere voti alti rimangono gli stessi. Semmai è aumentato il numero di verifiche  perché l’ansia di prestazione affligge allo sesso modo molti docenti.  Ciò che è cambiato e radicalmente è il peso di ogni singolo anno a fronte dell’esame. Tant’è vero che in passato se si faceva un buon esame, pur in presenza di valutazioni non proprio ottime in singole discipline o esiti poco brillanti degli anni precedenti, non ne era inficiato il valore e il peso sostanziale, era l’esame a contare quale momento conclusivo di un ciclo. A chi lamenta per il precedente sistema scarsa valorizzazione dell’intero percorso scolastico si potrebbe far notare che per fare un buon esame lo studente doveva  pur dimostrare di aver imparato qualcosa a dispetto dei voti conseguiti e magari si potrebbe azzardare l’ipotesi che non tutti gli studenti studiassero solo per il voto e che qualcuno studiasse per proprio interesse, perché escludere questa possibilità, dando per scontato che per tutti lo studio è finalizzato al per il voto attribuitogli da un docente? Ad ogni buon conto si ravvisa in tale sistema una concezione dello studio abbastanza distorta che peraltro contraddice la vulgata corrente delle acquisizioni delle competenze e dell’importanza dello studio e della scuola per lo sviluppo e la crescita personale, che non è procedendo a tappe forzate con la paura dell’errore sempre in agguato che si conquistano, piuttosto è nel tempo e con l’esperienza che tutto ciò avviene e si compie.

Tutte le riforme che si sono succedute negli anni seguenti – ad ogni cambio di ministro – non  modificano minimamente l’impianto generale, apportano solo delle variazioni sul tema da una parte aumentando i crediti da attribuire alla fine di ogni anno scolastico e diminuendoli per l’esame in modo da rendere l’esame stesso sempre meno pregno di significato e, dall’altra parte, al fine esclusivo di effettuare risparmi di spesa pubblica, è in quest’ottica che si inserisce allora la modifica a firma di Letizia Moratti nel 2002 che stabilisce una commissione di esami composta tutta da membri interni e con soltanto il presidente esterno[107], un unico presidente per tutte le commissioni del medesimo istituto.

Questa fu poi opportunamente abolita dal successivo ministero Fioroni nel 2007 che reintrodusse nuovamente la commissione mista e l’ammissione all’esame stesso, restituendo così all’esame un minimo di dignità, mentre l’altra modifica apportata, come già anticipato, fu l’aumento dei crediti che da 20 punti passa a 25 mentre il punteggio massimo al colloquio passa da 35 a 30[108], l’esame dunque, da questo punto di vista, “vale” sempre meno. Nel 2010 è il turno di Maria Stella Gelmini che introduce come requisito necessario per l’ammissione all’esame la sufficienza in ciascuna materia, il voto di condotta che fa media e stabilisce, inoltre, per i privatisti l’esame di ammissione agli esami[109]. Il ministro Profumo per l’anno scolastico 2011/12 predispone l’invio delle tracce d’esame in modalità telematica con sistema criptato a doppia chiave[110] limitandosi a dare attuazione, quindi, ad un decreto del presidente della Repubblica che era stato firmato nel 1998.

Con l’arrivo al ministero di Valeria Fedeli si prosegue sulla scia predisposta dal governo Renzi e il nuovo ministro vara un decreto[111] in attuazione a quanto previsto dalla famigerata “Buona scuola”, con il quale elimina la terza prova pluridisciplinare, sostituendola da prove INVALSI di italiano, matematica e lingua inglese come requisiti necessari per l’ammissione agli esami seppure la loro valutazione non concorra al voto di esame, almeno fino ad ora; l’altro cambiamento importante fu l’obbligatorietà per l’ammissione anche delle ore di alternanza scuola-lavoro svolte a seconda di quanto previsto per ogni indirizzo di studio che si configura come perché inevitabilmente crea ulteriore disparità tra quegli studenti che vivono in zone del paese altamente sviluppate e in cui è più facile trovare aziende disposte a prenderli in carico per consentire loro di svolgere le suddette ore e quegli altri che, al contrario, vivono in zone depresse in cui questa opportunità è oggettivamente loro preclusa, tant’è che si è diffuso il meccanismo per cui ai ragazzi e alle famiglie viene chiesto di pagare[112]. Queste modifiche furono poi completate da un’ulteriore variazione dei crediti che passano da 25 a 40 quelli relativi agli ultimi tre anni di scuola, gli scritti possono raggiungere un voto complessivo massimo per ciascuno di 20 punti mentre l’orale passò dai precedenti 30 punti a 20.

Pertanto se con l’introduzione del nuovo esame con la riforma Berlinguer l’esame aveva un valore complessivo di 80 punti e i crediti scolastici erano di soli 20 punti, man mano che si è andati avanti negli anni il valore e la dignità attribuiti all’esame sono andati progressivamente diminuendo mentre il numero di crediti degli ultimi tre anni di scuola sono andati parimenti aumentando. Sembra quasi che lo si voglia rendere sempre più ininfluente.

La prima applicazione di questo nuovo esame si è avuta nell’anno scolastico 2018/19 e a quel punto a Viale Trastevere arriva un nuovo inquilino targato lega, il ministro Bussetti, il quale si inventa l’idea rivendicata con grande orgoglio delle tre buste[113], prevedendo che il colloquio d’esame sia avviato dal sorteggio di una busta tra tre offerte al candidato dalle quali scegliere e contenente un “materiale”: un’immagine, una tabella, un breve testo purché abbia caratteristiche multidisciplinari e quindi poter offrire uno spunto al candidato da cui partire per sviluppare vari collegamenti trasversali tra le varie materie d’esame; l’orale deve avere carattere di colloquio e si deve categoricamente evitare di porgli domande. Tra l’altro questa nuova modalità impone tempi estremamente contingentati della durata massima di sessanta minuti, comprendenti l’attribuzione del voto, l’espletamento delle incombenze burocratiche e tenendo anche conto dei venti minuti distribuiti equamente tra la parte relativa a cittadinanza e costituzione e quella riguardante il PCTO (percorso di competenze trasversali per l’orientamento, ovvero la già alternanza scuola-lavoro). L’ultimo capitolo di questa saga è stato scritto dal ministro Azzolina che in piena emergenza sanitaria ha voluto a tutti i costi un esame serio[114]ma, che nei fatti, si è rivelato l’esatto contrario, a causa dell’emergenza Covid-19 è stato necessario eliminare gli scritti mantenendo solo la parte orale ma senza le buste volute da Bussetti, in compenso ciò che ne pregiudica la serietà che il ministro avrebbe voluto è stata la scelta di consentire ai candidati di partire da un elaborato precedentemente preparato e il cui argomento doveva essere assegnato dal docente delle materie della seconda prova e approvato dal consiglio di classe.

In definitiva, se si volge lo sguardo indietro si può constatare che l’originaria introduzione dell’esame di maturità da parte del ministro Gentile si proponeva una selezione molto rigorosa ed estremamente severa dei candidati di stampo molto classista, com’era tutto il sistema di istruzione dell’epoca, si è poi passati per una fase intermedia che consentiva una riduzione del classismo imposto dal periodo fascista pur mantenendo, grazie alla presenza di una commissione tutta esterna, una valutazione finale scrupolosa e trasparente; per finire ai giorni nostri con un esame sempre meno significativo e un peso sbilanciato sui crediti scolastici degli ultimi tre anni che generano le criticità che sono state sottolineate.

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