“LEARNIFICATION” O LA SCUOLA COME RIVELAZIONE?

WORLD-CENTRED EDUCATION, G. BIESTA Riflessioni e libere interpretazioni di L. R. Capuana Quarta parte.

L’istruzione ha un compito ben preciso, ci dice Biesta, ossia offrire allo studente precisamente ciò che egli non ha chiesto di ricevere, bensì molto di più, offrire l’occasione di andare oltre il “presente e il particolare”, quindi non solo dare ciò che non ha richiesto di ricevere; bensì proprio ciò che non sta cercando, ciò che non sa di cercare ma che con tutta probabilità potrebbe rivelarsi importante, ovvero offrire allo studente l’occasione di imbattersi in qualcosa di inaspettato, di sconosciuto che lo coinvolga nella scoperta e nell’esplorazione del mondo e di ciò che può offrirgli. 

Quindi, la scuola come luogo di rivelazione.

Mostrare al discente questa rivelazione è compito del docente.

LO STUDENTE AL CENTRO DELL’AZIONE DIDATTICA. “LEARNIFICATION”: UN PARADIGMA DA CAMBIARE

L’episodio, riportato nella precedente puntata, dello studente difficile della scuola “Little Commonwealth”, Jason, consente a Biesta di affrontare anche l’ormai annosa questione da lui ribattezzata “learnification”, ovvero ciò che lui individua come una miope distorsione del dibattito pubblico sull’istruzione che punta tutta la sua attenzione su quell’atto di apprendere che, come già segnalato da Biesta, ad un’analisi appena più attenta risulta essere vago se non si specifica cosa lo studente debba apprendere e per quale scopo.

Pur riconoscendo le buone intenzioni che generano l’attuale spinta di certa pedagogia che pretende mettere l’alunno al centro dell’atto di insegnamento, colui che apprende e l’apprendimento in sé e per sé; ovvero quella reazione decisa che si vuole opporre all’autoritarismo scolastico, che in passato ha avuto il sopravvento ponendo il docente nella posizione di esercitare il controllo anche sulla mente degli studenti attraverso pratiche oggi etichettate indiscriminatamente con accezione esclusivamente negativa, e per certi versi discutibile, come, “tradizionale”, “trasmissiva” e “obsoleta”; Biesta, tuttavia, tiene anche a sottolineare, che la svolta costruttivista è andata verso l’estremo opposto riducendo il  docente a semplice “facilitatore, allenatore e amico e l’atto di insegnare è stato definito vecchio, stantio e, secondo il «dogma» costruttivista persino impossibile da attuare”.

All this has moved “the learner” to the centre of the educational endeavour and has manoeuvred the teacher to the side-line – coach, facilitator, fellow-learner, friend, critical or otherwise, but hardly ever teacher. On the one hand this has given the impression that teaching is outdated, undesirable and, according to constructivist “dogma”, even impossible and that, therefore, we should do away with teaching.

World-Centred Education, p. 69.

Tra l’altro, osserva acutamente il nostro, aver spostato la centralità del docente al discente ha fatto sì che venissero messi in primo piano, rispetto all’atto dell’insegnamento essenziale all’istruzione, i risultati dell’apprendimento del discente e che questi devono essere validati dall’industria della misurazione e conseguente classificazione attraverso i test standardizzati.

Ma non solo, infatti, oltre ad aver trasformato con questo meccanismo lo studente in cliente le cui richieste vanno soddisfatte sempre e comunque per renderlo felice e fidelizzato, lo ha anche reso responsabile di ciò che impara e delle scelte che compie in merito al contenuto da apprendere; gli ha imposto pure di decidere  quali traguardi conseguire e di auto-regolarsi nel percorso ma tutto ciò ha amplificato il dettato neoliberista, sottolinea ancora Biesta, conferendo a studenti e loro genitori lo status di clienti in ciò che viene indicato come “mercato dell’istruzione”.

Eppure, l’istruzione ha un compito altro e ben preciso, ci dice Biesta, ossia di offrire allo studente precisamente ciò che egli non ha chiesto di ricevere, bensì molto di più, offrire l’occasione di andare oltre il “presente e il particolare”[1], quindi non solo dare ciò che non ha richiesto di ricevere; bensì proprio ciò che non sta cercando, ciò che non sa di cercare ma che con tutta probabilità potrebbe rivelarsi importante, ovvero offrire allo studente l’occasione di imbattersi in qualcosa di inaspettato, di sconosciuto che lo coinvolga nella scoperta e nell’esplorazione del mondo e di ciò che può offrirgli. Quindi, la scuola come luogo di rivelazione. Mostrare al discente questa rivelazione è compito del docente.

Ne consegue dunque che la pretesa di mettere lo studente al centro dell’azione didattica allo scopo di farlo apprendere, quasi ci sia un’inevitabile relazione di causa ed effetto predeterminata dalla metodologia didattica dello “studente al centro” pone, quanto meno, degli interrogativi su cui riflettere.

Inoltre, continua Biesta riprendendo quanto già detto, per i sostenitori di questa metodologia il docente e le materie sono un ingombro di cui disfarsi in quanto, a loro dire, sia i docenti che i contenuti disciplinari, rappresentano forme di controllo classificate come “vecchia pedagogia autoritaria” a cui opporsi con ciò che definiscono una scelta progressista, mettendo appunto lo studente e il suo apprendimento al centro dell’azione didattica.

Tra questi approcci progressisti Biesta annovera ovviamente anche il metodo didattico volto allo sviluppo delle competenze (competence-based approach), che critica in quanto dimentica che gli esseri umani non sono mai “del tutto competenti” e questo è un aspetto della nostra esistenza, dice Biesta, di cui dobbiamo prendere atto quotidianamente[2].

Queste cosiddette metodologie didattiche moderne sono sempre più promosse dai costruttivisti i quali però, ci ricorda Biesta, sono sempre gli stessi che non si danno mai la pena di spiegare cosa bisogna che gli studenti apprendano, e a che scopo. Sul punto in questione l’autore, tra l’altro, evidenzia che di fatto chiunque lo voglia può imparare anche autonomamente e attingendo ad una vasta mole di materiale pure da Internet. Ne deriva che lo scopo dell’istruzione, il motivo per cui un’istruzione formale e obbligatoria sia necessaria, che possa rappresentare un imperativo sociale non può esaurirsi nell’assunto secondo cui lo studente deve apprendere e che questo apprendimento sia il risultato scontato e dovuto dell’istruzione.

IL COMPITO DEL DOCENTE

Se quindi il paradigma, oggi in voga, dello studente al centro dell’azione didattica è da cambiare perché sia possibile è importante comprendere in che direzione andare per superarlo. È altresì importante comprendere quale debba essere il compito del docente ed è questo l’oggetto del capitolo 5 di World-Centred Education che, appunto, si concentra sul lavoro dei docenti e quali sono, a parere dell’autore, i compiti di un docente nei confronti dei propri discenti. In una stringata sintesi, ciò che il docente è chiamato a fare concretamente con il proprio lavoro, dice Biesta, è “dare alle nuove generazioni un’equa opportunità di emancipazione per diventare persone complete”.

(…) the work of the educator (and maybe even all of the work comes down to this) is to give the new generation a “fair chance” at their own grown-up freedom. Because what is at stake here is the freedom of the child or student, that is, their existence as a subject, the educational work remains risky. This is not just because it can never be enacted as a form of control, but also because (…), we as educaturos, risk ourselves in this work.

Op. cit. p. 58.

Da qui il suo profondo scetticismo riguardo alla fideistica adesione alla metodologia didattica che vuole “mettere lo studente e il suo apprendimento al centro”, infatti, continua, poiché lo studente è importante l’insegnamento, perché abbia un senso, deve andare oltre l’apprendimento dello studente, né può, l’azione stessa d’insegnare, essere immediatamente compresa dallo studente.

E infatti, Biesta, come già più volte sottolineato, ribadisce, che l’istruzione non può essere limitata solo all’apprendimento; piuttosto, l’istruzione è tale se fa sì che lo studente impari “qualcosa” e lo impari “per una ragione” e grazie a “qualcuno”.

Perciò, per Biesta il ruolo del docente non può essere ridotto a quello di “facilitatore” perché tale limitazione compromette la complessità del rapporto che il docente costruisce con il discente attraverso il proprio lavoro. In tal senso quindi è controproducente, secondo Biesta, anche la contrapposizione tra “didattica tradizionale” e “didattica progressista”, specie se si associa la prima ai docenti e la seconda ai discenti e all’apprendimento di questi; quindi, prosegue Biesta, lo scopo dell’istruzione non può essere finalizzato solo all’apprendimento dello studente. Oltretutto, riprendendo quanto già detto, l’apprendimento non è un diretto risultato dell’istruzione, quanto piuttosto un evento, per così dire, incidentale e non sempre voluto. L’istruzione allora, per Biesta, si configura come qualcosa in “più” e questo “di più” Biesta lo individua nei tre domini di scopo che dovrebbero essere parte integrante dell’istruzione, ovvero, come già segnalato: qualificazione, socializzazione/integrazione e soggettivazione dello studente.

Ne consegue che questi tre domini, secondo Biesta, rappresentano lo scopo che l’istruzione deve perseguire e che ne giustificano la sua necessità e la sua obbligatorietà.

Di questi tre domini già descritti l’autore mette in discussione principalmente la gerarchia sostenendo che il terzo dominio, quello indicato come soggettivazione, dovrebbe in realtà essere messo al il primo posto. In quanto, continua Biesta, la posta in gioco è la libertà dell’individuo, della persona. Un concetto di libertà, sottolinea Biesta, da non confondere con una libertà illimitata. Al contrario si tratta di una libertà consapevole e in grado di distinguere tra l’immediato soddisfacimento dei propri desideri infantili e una forma di libertà, che prescindendo dall’età anagrafica, è adulta e matura; ovvero, capace di frenare e governare i propri impulsi. Questa libertà è intrinsecamente connessa con il modo in cui ognuno di noi sceglie di stare al mondo e riguarda anche la capacità di ognuno di noi di opporre resistenza ai bisogni indotti di ciò che Biesta, riprendendo Paul Roberts, definisce la “società degli impulsi”[3] e di consumare in modo compulsivo.

Riguarda anche, dice Biesta citando H. Arendt, la consapevolezza che ognuno di noi prende delle iniziative e con esse dà vita a qualcosa che viene poi, successivamente, ripresa e portata avanti da altri; altri che, a loro volta, sono artefici di “inizi” propri e che sono interdipendenti, diventando “azioni”. Tuttavia, la scelta di portare avanti ciò che è stato avviato da altri è libera, così come ognuno di noi è libero di portare avanti un’iniziativa intrapresa già da altri seguendo ognuno le proprie inclinazioni. In altri termini, ciò che qui si vuole evidenziare è che non si può esistere in modo isolato e che l’azione di ciascuno è soggetta a quella di altri e che non la si può controllare senza mettere in discussione l’autonomia altrui. Di fatto, prosegue Biesta, ciò è quanto si intende con democrazia, perché ciascuno partecipa attivamente e non c’è una persona singola che guida e gli altri che seguono.[4]

Per meglio chiarire la sua teoria Biesta fa riferimento a Klaus Prange che sottolinea che la mera azione di insegnare non determina di per sé l’apprendimento[5] e con questo riferimento Biesta introduce due concetti distinti: “imparare da” ed “essere insegnati da”.

(…) While we can learn many things from watching other people, listening to them, trying to emulate them, and so on, this always remains our own activity (…). “Being taught by” is about what comes to me, what is given to me, what arrives with me, irrespective of what I was looking for and irrespective of what I desired or was hoping for – which means that it always interrupts. This interruption is not necessarily a bad thing: it’s first of a fact of life, even if it can be an inconvenient fact.

Op. cit., p. 62.

Biesta spiega questi due diversi concetti sottolineando che l’apprendimento dello studente, la restituzione conforme al curriculum di ciò che lo studente ha appreso/apprende non può rappresentare lo scopo dell’atto di insegnare e men che meno possono esserlo i risultati e gli esiti di tale apprendimento; proprio per questo, dieci anni orsono, coniò il termine “learnification” entrato nell’uso corrente anche in italiano, per indicare la deriva aziendale ed economicista del dibattito sulla scuola ma anche della direzione assunta da certa pedagogia a livello internazionale.

Una deriva che, a parere dell’autore del libro che si sta qui analizzando, riduce l’istruzione ad una fabbrica di risultati ed esiti che vede coinvolti, da una parte i vari decisori politici a vari livelli, la politica in generale e, dall’altra, quella che Biesta chiama l’industria della misurazione globale con i suoi test standardizzati e le lobby che raggruppano portatori di interessi per lo sviluppo delle competenze del ventunesimo secolo; in genere gruppi industriali di rilevanza globale il cui unico obiettivo è ciò che Biesta definisce: “imporre alle persone di assumere un’unica posizione, ovvero quella di colui che apprende”[6]; entro cui si inserisce la più pressante e significativa che è quella di essere assoggettati all’imperativo del “lifelong learning[7] finalizzato esclusivamente all’inserimento, o reinserimento, nel mondo del lavoro presentato come complesso e in costante cambiamento per via delle continue innovazioni tecnologiche.

Ma se la questione più preoccupante dieci anni fa, dice Biesta, erano certe locuzioni allora emergenti come: “colui che apprende”, “facilitatore di apprendimento” – riferito ai docenti –, “ambiente di apprendimento” e appunto “lifelong learning”, che avevano già sostituito concetti come: studente, scuola, insegnamento e istruzione per adulti, quindi, una trasformazione lessicale a cui lui già allora aveva contrapposto la necessità di tornare a discutere su concetti più profondi come “imparare cosa e ancora più importante: a cosa avrebbe dovuto servire l’apprendimento, chiedersi dunque imparare cosa per farci cosa”, allora la sua risposta fu che, dal suo punto di vista, l’istruzione avrebbe dovuto riguardare quei tre domini di cui si è già precedentemente illustrato il nucleo.

(…) were all referring to education in terms of learning, without asking what the learning was supposed be “about” and, more importantly, without asking what the learning was supposed to be “for”. It was particularly the absence of a nuanced debate about the purpose of education (other than the empty statements such as that “learning outcomes”) that worried me most.

Op. cit., p. 60.

Bene, dieci anni dopo locuzioni ben più sconcertanti sono diventati d’uso comune, ci dice, quali ad esempio, “deep learning” (apprendimento profondo), “brain-based learning” e “machine learning” ed è da queste espressioni che le politiche scolastiche vengono condizionate e si innestano in dichiarazioni pubbliche, che per Biesta sono del tutto incomprensibili.

Se dieci anni fa non era ancora chiara per Biesta la questione centrale facendo allora fatica ad afferrarla pienamente, è che lo scopo unico dell’insegnamento non è l’apprendimento così come non lo è nella vita in generale proprio come dimostrato, ragionando sui diversi percorsi di vita di R. Parks e A. Eichmann; se, infatti il secondo è la chiara dimostrazione di chi ha introiettato perfettamente l’addestramento ricevuto; Parks dimostra, al contrario, di essersi emancipata, pertanto è evidente, dice Biesta, che il compito dell’istruzione è far in modo che la persona sia in grado di compiere scelte autonome sulla base di un pensiero libero e critico. Essere persona e non semplicemente “colui che apprende”; in sostanza l’istruzione coinvolge e tocca svariate “possibilità esistenziali” e non solo quelle di apprendere. Ne consegue dunque che non può esserci libertà nell’apprendimento senza libertà di insegnamento.

The educational [prompt/solicitation,Aufforderung” nell’originale], to put it differently, is to be a “self”, not to be a learner. This is the key reason why I found it important to argue for the need to “free” teaching from learning (…), so that other existential possibilities (…) that lie “beyond” learning (…) can come into view and can be brought to play.

Op. cit., p. 61.

DIFFERENZA TRA APPRENDERE E ISTRUZIONE

Ciò che contraddistingue la natura umana, dice Biesta, è quel suo bisogno specifico e peculiare, trascendente, di voler comprendere la nostra condizione, dare un senso alla nostra esistenza, alla nostra condizione umana. Quella fame di sapere in relazione all’azione caratterizzante anche la dimensione dell’insegnamento [8].

A proposito del duplice aspetto dell’istruzione che oggi vede contrapposti “apprendimento” e “insegnamento” Biesta riflette sul fatto che l’apprendimento può avvenire benissimo anche in assenza di un insegnamento formale. Cioè, lui dice, l’atto di apprendere ha origine in colui che desidera imparare ed è indipendente. Si può imparare anche al di fuori dal contesto scolastico specifico, è la persona che vuole imparare che si adopera per acquisire sapere, a padroneggiare competenze, che desidera comprendere le leggi che governano il mondo e nel mondo cerca le risorse per apprendere.

Ma, prosegue Biesta, proprio per queste ragioni ciò che contraddistingue l’istruzione non è il fenomeno dell’apprendimento e approfondisce la questione che pone risalendo alla “tradizione analitica” e, più precisamente, alla posizione esplicita assunta dal filosofo americano Paul Komisar che, già nel 1968, sosteneva che l’obiettivo dell’insegnante nell’atto di insegnare non è l’apprendimento del discente che è, per così dire, un fenomeno accidentale e non intenzionale[9], piuttosto, Biesta chiarisce come per Komisar, l’obiettivo dell’atto di insegnare è di risvegliare la consapevolezza di un “uditore” – non uno studente o un soggetto che apprende – che diventa, per Komisar dice Biesta, pienamente consapevole dell’atto di insegnare che a sua volta coinvolge, chiama in causa, in quanto “io”, lo studente che, a sua volta, si fa soggetto della relazione e non rimane mero ricevente passivo a cui viene chiesto di restituire obbediente i contenuti del programma di studi[10].

Ecco, dunque, che, se l’atto di apprendere nasce da colui che apprende indipendentemente dall’istruzione formale, al contrario, l’atto di insegnare è essenziale, parte integrante dell’istruzione formale che non si invera senza l’insegnamento; quindi, è un atto che ha origine fuori dallo studente stesso il quale non chiede ciò che gli verrà insegnato e magari avrà insegnamenti che non ha scelto e che non vuole ma che gli verranno dati “indipendentemente dal suo volere”; insegnare, allora sottolinea Biesta, è un dono.


[1] Op. cit., p. 70.

[2] Op. cit. capitolo 3, nota n. 9. (Tutte le traduzioni sono da intendersi, salvo diverse specificazioni, come mie)

[3] Op. cit. p. 20.

[4] Op. cit. pp. 47-49.

[5] Op. cit., p. 59.

[6] Il termine nel testo originale è learner che io ho scelto di tradurre in questo modo o che, in alternativa, potrebbe essere reso anche con il meno comune: apprendente e questo perché tradurlo con “discente” non evidenzia a sufficienza l’intento polemico con cui l’autore usa, a mio parere, il termine learner.

[7] Op. cit., p. 62.

[8] Op. cit., p. 59.

[9] Op. cit., p 61.

[10] Op. cit., p.61.

© L. R. Capuana

 

 

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