Riflessione in merito all’allarme lanciato dai 600 docenti universitari
Sono 600 i cattedratici che finalmente si accorgono degli analfabeti di ritorno e di quelli funzionali, e lanciano l’allarme. Bene, era ora che qualcun altro al di fuori degli addetti ai lavori, rimasti inascoltati fino ad ora, se ne accorgesse e lo mettesse ben in evidenza a livello nazionale. Personalmente sono molto contenta.
Tuttavia, a questo punto ci si deve porre però un’altra serie di domande: dov’erano costoro quando con la riforma Gelmini si è re-introdotto l’insegnante unico alle primarie – per tagliare sprechi, si disse – e dov’erano quando fu attuato un riordino degli istituti tecnici e professionali che tolse ai primi ore di insegnamento fondamentali – penso a geografia e storia dell’arte, specie in quelli ad indirizzo turistico, in una nazione come l’Italia! – mentre per quelli professionali abolì il diploma di qualifica e l’area professionalizzante – per risparmiare, anche qui -. E ancora, dov’erano quando con la “Buona Scuola” il governo Renzi ha introdotto l’alternanza scuola-lavoro per tutte le scuole secondarie di secondo grado, compresi i licei – qual è il senso di sottrarre gli studenti per due o tre settimane dalle aule di scuola e metterli in uffici, negozi, ristoranti senza retribuzione, cosa potranno mai imparare in così poco tempo – ? Dov’erano quando il MIUR ha consentito la sperimentazione di quattro anni alle secondarie di secondo grado – per allinearli agli istituti di altri paesi europei, ma tanti istituti europei hanno durata quinquennale, in Germania, ad esempio – ; dov’erano quando tutti, ma proprio tutti, hanno ripetuto ossessivamente di abolire dettati, riassunti, tabelline a memoria perché didattica obsoleta e introducendo la miracolosa didattica digitale ed esclusivamente quella?
E vogliamo parlare dei test INVALSI? Essi sono finalizzati a creare graduatorie mortificanti tra scuole – scuole-aziende, che oggi devono contendersi gli iscritti come fossero clienti a cui vendere una promessa di lavoro futuro, promessa che, ovviamente andrà delusa perché sono le imprese che non assumono, non investono in nuove tecnologie e men che meno nella formazione e/o valorizzazione delle risorse umane obbligando le scuole a farlo, che di mestiere però dovrebbero far altro, promesse aleatorie perché è cosa nota che il mercato del lavoro subisce modifiche costanti e repentine -; graduatorie mortificanti tra docenti senza tenere minimamente in conto le dinamiche di classe, la composizione socio-economica di provenienza degli studenti che non può non determinare condizionamenti e adattamenti di programmazione, didattica e valutazione delle prestazioni degli stessi. Le prove INVALSI sono pensati per una scuola standardizzata, peccato però che la scuola non è composta da individui standard, bensì da persone. Persone che hanno bisogni diversi, tempi di apprendimento diversificati a seconda delle discipline, tempi di crescita e di maturazione che non possono essere standard. Pertanto, la misurazione INVALSI e la sua pretesa di valutazione oggettiva è falsata in partenza.
Oggi, inoltre, si parla di didattica per competenze, gli studenti devono imparare ad imparare, devono “saper fare” oltre che incrementare il loro bagaglio di sapere e saperi. Bene, benissimo! E la comprensione del testo attraverso l’analisi testuale non serve proprio a questo? A saper decodificare il messaggio comunicativo contenuto in un testo, sia esso letterario o scientifico? Non è questa una competenza esiziale per stare al mondo, comprendere ciò che si legge non torna utile anche per capire cosa ci stanno fatturando in una bolletta? La produzione scritta non dovrebbe espletare la funzione di comunicare con l’esterno, l’altro da noi, ciò che intendiamo veicolare? Non è, dunque, anche questa una competenza necessaria, sapere utilizzare la punteggiatura, la sintassi, il lessico per saper esprimere il proprio pensiero, argomentandolo?
E invece no, non basta, bisogna che i ragazzi creino dei prodotti che dimostrino la loro competenza nel “saper fare” e attraverso cui poter misurare la loro capacità di lavorare in gruppo, la loro capacità di mettersi in relazione con gli altri da un punto di vista sociale ed emotivo.
Ne deriva che se da un lato si è abbassata l’asticella relativa alla misurazione della loro preparazione scolastica, tant’è che si vogliono modificare i requisiti necessari per l’ammissione agli esami di stato, infatti se passa la proposta del MIUR sarà sufficiente avere la media del sei complessivamente e non del sei per disciplina; dall’altro lato si tende sempre più ad innalzare l’asticella relativa alla maturazione emotiva degli studenti che devono essere regimentati entro un ordine sociale che richiede efficienza e produttività, prima ancora che benessere interiore e sviluppo dell’identità personale di giovani che devono ancora fare esperienze tali da consentire loro di acquisire le necessarie competenze per fronteggiare le sfide della vita a tutto tondo.
Le competenze e la competenza si ottengono sommando conoscenza – che si acquisisce sui banchi di scuola – ed esperienza. Le competenze dunque discendono dalle conoscenze che si metteranno in pratica nella vita quotidiana – spesso senza quasi rendercene conto – da cui pertanto discende l’esperienza. E’ così che nel tempo si diventa competenti nel proprio lavoro e si sviluppa competenza. Quanto alla competenza nella sfera affettiva ed emotiva, sfido chiunque ad asserire che si raggiunga mai in maniera definitiva e che non si tratta invece della capacità individuale di mettersi in gioco e in discussione continuamente, fino alla morte.
Ne consegue, infine, che la scuola dovrebbe tornare ad occuparsi precipuamente di ciò che le compete, ossia dell’istruzione degli studenti senza pretendere – né la scuola né la società -, da questi che con il diploma siano futuri cittadini completi e finiti. I ragazzi non sono il prodotto di una catena di montaggio, prodotto standard privo di difetti perché manufatto con lo stampino. Sono esseri umani che non devono avere l’obbligo di essere efficienti e produttivi, belli e finiti cosicché in automatico le aziende le inseriscono nei loro settori di riferimento. Hanno invece il dovere di diventare delle persone adulte serene che esistono per se stessi e non per il mercato del lavoro.
Ultima questione: negli ultimi venticinque anni il sistema di istruzione – dalla scuola dell’infanzia all’Università – ha subito tagli lineari e indiscriminati che lo ha reso sempre più fragile e incapace di offrire il servizio per cui esiste; ha subito una serie ininterrotta di riforme che hanno fatto tutto e il contrario di tutto rendendolo instabile e fallace sotto tanti punti di vista. La classe docente nel suo insieme ha visto ridotto il suo potere di acquisto, ha perso riconoscimento sociale ed è stata oggetto ripetutamente di campagne mediatiche indegne. Parte della responsabilità è anche nostra per non essere stati capaci di opporre una resistenza efficace alle tante accuse che ci sono state rivolte, ma è anche vero che la politica non ha mai dato ascolto alle istanze e alle proteste motivate dei docenti. Negli anni è stata progressivamente ridotta nei fatti la libertà di docenza e ci è stato imposto dall’alto di eseguire ordini spesso sconsiderati di cui oggi gli effetti sono più che evidenti.
Il punto è proprio questo: gli effetti di una didattica inappropriata si evidenziano nel lungo termine, tanto quanto è vero il contrario, con buona pace di tutti i seguaci della velocità.