CAPITOLO 1 – POLITICA E ISTRUZIONE

A. La scuola italiana dall’Unità alla caduta del muro di Berlino

– Dal Regno Sabaudo all’Unità d’Italia

Bisogna risalire al 1859 per rintracciare quello che fu considerato un vero e proprio codice dell’istruzione italiano esteso a tutto il Regno dopo l’Unità del 1861. Si tratta della Legge Casati[7] che, pur con i suoi limiti, introduceva un principio importante, ovvero della gratuità e obbligatorietà, quanto meno del primo biennio dell’istruzione elementare. Ma ebbe anche il merito di sancire il diritto-dovere dello stato di istituire strutture educative sottraendone così il monopolio alla Chiesa Cattolica. Un altro principio di pari importanza introdotto fu quello dell’uguaglianza dei due sessi di fronte alle esigenze dell’istruzione, alquanto in anticipo sui tempi se si pensa che in Francia nel 1870 si dibatteva ancora sull’opportunità di garantire alle donne lo stesso tipo di istruzione garantita agli uomini.[8] L’obiettivo principale cui tendeva era di garantire un’istruzione di base alla popolazione italiana ancora in grandissima parte analfabeta.      

Tra i suoi limiti però non si può non evidenziare il suo carattere fortemente elitario perché impediva che ci fosse alcuna mobilità sociale destinando l’istruzione tecnica alla formazione di una classe operaia specializzata, mentre dall’altro lato l’istruzione classico-umanistica che, restava a pagamento, era appannaggio esclusivo delle classi più abbienti, gli unici che dunque potevano proseguire gli studi universitari cui essa dava accesso e ricoprire i ruoli delle future classi dirigenti; oltretutto i contenuti scolastici si rivelarono ben presto inadeguati, insufficienti e ulteriormente discriminatori in quanto non tenevano minimamente conto degli enormi e gravi svantaggi socio-culturali di gran parte degli studenti; un altro grave limite fu un’applicazione per lo più disattesa dagli enti che avrebbero dovuto farsene carico, ovvero i Comuni già scarsamente finanziati[9].     

Nonostante le dichiarazioni di intenti è sin da questo primo tentativo che si manifestano due dei più grandi limiti della politica italiana in tema di istruzione che, peraltro, si ravvisano ancora oggi: il primo è sicuramente un finanziamento sempre ben al disotto delle reali necessità per concretizzare i progetti, e il secondo è uno spiccato carattere classista. Che l’analfabetismo in Italia non fosse stato nemmeno scalfito dalla Legge Casati e che addirittura era aumentato dopo il suo varo lo certificò il censimento del 1871.  

– La scuola italiana dopo l’Unità

Il 1876 fu l’anno della sinistra storica al governo con De Pretis e nel 1877 fu varata la Legge Coppino[10] il cui merito principale fu sicuramente quello di dare un’impostazione laica all’istruzione abolendo l’insegnamento della religione cattolica e sostituendolo con educazione civica (a proposito di corsi e ricorsi storici[11]) che avrebbe dovuto fornire le “prime nozioni sui doveri dell’uomo e del cittadino”.[12] Sul fronte della lotta all’analfabetismo questa legge istituì maggiori fondi per i Comuni a favore dell’istituzione di nuove scuole e sanzioni contro i genitori che non assolvevano all’obbligo di frequenza della scuola dei loro figli dai sei ai nove anni. Tuttavia la situazione rimase sostanzialmente invariata.     

Nel 1904 fu la volta della Legge Orlando[13] che estese l’obbligo scolastico fino ai dodici anni di età, impose ai Comuni l’obbligo di istituire scuole almeno fino alla classe quarta e istituì un fondo di assistenza per gli alunni più poveri. Da notare che se, da un lato eleva l’obbligo scolastico per gli alunni fino ai dodici anni di età, dall’altro impone ai Comuni di istituire scuole almeno fino alla classe quarta, ovvero fino ai nove anni di età dei discenti; ancora una volta il cittadino si trova davanti ad un obbligo da ottemperare che le istituzioni tuttavia gli impediscono di assolvere; si ripete la classica contraddizione tutta italiana: alle buone intenzioni non si dà seguito con azioni certe e concrete, da parte dello stato, per consentire ai cittadini di attenersi alle norme e rispettarle. A questo proposito mi sembra interessante una citazione di Norberto Bobbio, ripresa da Alberto Baffigi, che discutendo intorno ad un testo di Carlo Rosselli, scrive: “(…) l’astratto riconoscimento della libertà (…) a tutti gli uomini, se rappresenta un momento essenziale nello sviluppo della teoria politica, ha un valore ben relativo quando la maggioranza degli uomini, per condizioni intrinseche e ambientali, per miseria morale e materiale non sia posta in grado di apprezzarne il significato e di valersene concretamente. (…) Libero di diritto è servo di fatto”[5], ecco mi sembra che riassuma bene lo stato anche attuale delle cose. Pertanto l’unico merito che può essere riconosciuto a questa legge fu di sottolineare la necessità che istruzione e formazione dei cittadini passassero dai Comuni allo stato.     

Sarà necessario aspettare fino al 1911 e la riforma Daneo-Credaro[6] perché vi sia, seppure in forma  molto graduale, una progressiva statalizzazione della scuola partendo dalla scuola elementare, essa inoltre prevedeva appositi stanziamenti nel bilancio dello stato.

– La Riforma Gentile

Infine, nel 1923 si avrà la quasi leggendaria (nel senso che durò pressoché invariata fino agli anni ’60 e di cui se ne risentono gli effetti ancora oggi) Riforma Gentile che senza dubbio fece un’operazione poderosa rispetto ai tentativi precedenti ma fu anch’essa impregnata dal solito vizio italico di infondere nel sistema di istruzione nazionale uno spiccato spirito elitario, che richiama la legge Casati, istituendo due percorsi di studi ben definiti e separati: l’avviamento professionale che già dal nome individua i suoi discenti predestinati, ovvero tutti coloro che appartenevano alle classi sociali più umili e che potevano aspirare a diventare solo degli operai, secondo questo preciso disegno dato dallo stato all’istruzione; per contro le élite sociali del Paese, avevano a disposizione la scuola media propedeutica alla frequentazione del liceo classico (l’istituzione del liceo scientifico è di poco posteriore e comunque non consentiva l’accesso alle facoltà di Lettere e Filosofia e Giurisprudenza), unica scuola che consentiva l’accesso agli studi universitari. Inoltre, fu questa riforma che nel 1929, a seguito dei Patti Lateranensi, reintrodusse l’obbligatorietà dell’insegnamento della Religione Cattolica a scuola.

– La scuola italiana della Repubblica

Nonostante la Riforma Gentile restasse pressoché invariata anche dopo la caduta del fascismo, la scuola italiana del dopoguerra fu comunque oggetto di grande attenzione da parte della politica che nella Costituzione Repubblicana, entrata in vigore nel 1948, vi dedica ampio spazio conferendole una svolta democratica, prova ne sono i due articoli posti in apertura di questo saggio. Inoltre a dispetto di quanti sostengono che la scuola italiana sia affetta da immobilismo e che i docenti siano una categoria professionale notoriamente restia ai cambiamenti e quindi veicolano un’idea di scuola che non abbia mai subìto modifiche, la realtà dei fatti dimostra che invece la scuola italiana nel corso degli anni è stata cambiata più volte. Ciò che va sottolineato con fermezza invece è che c’è stata una stagione progressista che ha certamente impresso una chiara volontà modernizzatrice e che si è fatto un tentativo, seppur non troppo convinto, di attuare concretamente il dettato costituzionale.      

La stagione d’ispirazione progressista fu avviata nel 1957 con il ministro della pubblica istruzione Aldo Moro[1] che vara una legge che ha come scopo il riordinamento della scuola elementare i cui punti salienti sono la divisione dei cinque anni in due cicli: il primo corrispondente alle classi prime e seconde; mentre il secondo ciclo corrispondente alle classi terze, quarte e quinte.[2] Nell’articolo due della stessa legge si stabilisce che la promozione alla fine di ciascun ciclo è conseguito tramite un esame finale scritto e orale, mentre la promozione da una classe all’altra dello stesso ciclo avveniva senza esame e tramite scrutinio (si aboliva tra l’altro l’esame di terza elementare); il principio che sottende questa scelta sembra essere dunque quello di verificare sì che gli studenti, prima di passare da un ciclo all’altro, avessero acquisito gli obiettivi di apprendimento richiesti per proseguire e l’esame alla fine di ogni ciclo ne è la prova, ma allo stesso tempo, l’articolo due recita anche che: “ l’insegnante non ammette l’alunno alla classe successiva dello stesso ciclo soltanto in casi eccezionali, su ciascuno dei quali fornisce al direttore didattico motivata relazione scritta” sottolineando quindi che è la scuola che deve adoperarsi affinché quegli obiettivi siano di fatto raggiunti dai discenti, coloro che non ottengono la promozione dovranno, invece, ripetere l’anno. Si evince che c’è uno sforzo di contemperare da un lato la verifica rigorosa degli apprendimenti dei discenti e, dall’altro, la consapevolezza che sia la scuola a farsi carico di questa acquisizione da parte degli studenti. Infatti che le non ammissioni alle classi successive rientrino solo in casi eccezionali, ritengo, possa essere un altro chiaro segnale in senso democratico poiché si intende sottolineare, a parer mio, la necessità che ogni allievo sia messo in condizione di conseguire gli strumenti atti alla sua futura emancipazione e che un alunno così giovane non possa fare a meno di un’opportuna guida fornita dai docenti[3].     

Per quanto riguarda la scuola media forse la riforma più emblematica dal punto di vista della svolta democratica impressa dalla Costituzione è quella del 1962[4], trattasi del primo provvedimento strutturale in materia scolastica e dà, appunto, attuazione all’art. 34 della Costituzione, ovvero l’istruzione obbligatoria successiva a quella elementare è impartita gratuitamente nella scuola media che, dunque, diventa unica ed ha durata di tre anni, giova sottolineare: gratuita,  obbligatoria e  triennale. Essa stabilisce che la scuola media dà accesso a tutte le scuole superiori, abolendo, tra l’altro, la scuola di avviamento professionale che, come si è già detto, creava disparità di trattamento socio-culturale per i cittadini.     

Bisognerà aspettare invece il 1968 perché venisse istituita quella che allora fu chiamata la scuola materna statale[5] che entra nell’ordinamento scolastico e poiché “statale” ne sottolinea la gratuità, essa ha indubbiamente il merito di fare emergere queste realtà già esistenti ma, ancora, affidate alla spontaneità territoriale, e a volte con carattere assistenziale e confessionale.

– Dai decreti delegati ai primi anni ’90

Ma la vera svolta, frutto di quella spinta progressista che raggiunge il suo punto più alto con il movimento del ’68 – da tanti oggi messo all’indice erroneamente come l’inizio della fine del sistema di istruzione italiano –, arriva con i cosiddetti Decreti Delegati degli anni ’70, in parte raccolti nel Testo Unico 1994[1] e per molti aspetti, dunque, ancora validi e in vigore. Tra quelli che, a parer mio, sono più interessanti e che riflettono appunto la spinta progressista ci sono le introduzioni degli organi collegiali che segnano anche una marcata svolta democratica nel funzionamento della scuola e sulle modalità di assumere decisioni che la riguardano come comunità. Dunque l’ingresso dei rappresentanti dei genitori e degli studenti nei consigli di circolo, di classe e di istituto sono da salutare come momenti di condivisione delle scelte e delle responsabilità. Tuttavia, alla luce dei risultati ottenuti e specialmente negli ultimi anni c’è da chiedersi se questa rappresentanza è stata assunta con la giusta e piena consapevolezza. I rappresentati delle componenti sia dei genitori sia degli studenti, di fatto, sono chiamati a svolgere un ruolo molto impegnativo che richiede indubbiamente preparazione approfondita, purtroppo non sempre sembra ne abbiano piena coscienza e dunque, in casi tutt’altro che rari, vengono prese decisioni importanti con grande superficialità. Cionondimeno dal punto di vista puramente formale non si può bollare come del tutto negativa la loro presenza, semmai, dovrebbero essere informati della importanza del ruolo mettendoli in condizioni di informarsi con maggiore cura documentandosi a dovere onde evitare di decidere senza la dovuta preparazione e senza che si sia riflettuto abbastanza su possibili conseguenze da esse derivanti. Anche il Collegio dei Docenti è un organo di grande importanza per il buon funzionamento degli istituti scolastici, per il livello di condivisione delle scelte e per il potere decisionale di cui è investito, nonché per quello di controllo. Eppure, anche in questo caso, sono intervenute tante e tali modifiche, come si vedrà più avanti, che hanno, in parte, svuotato di significato l’intento originale e indebolito la sua leva decisionale. Per anni, ad ogni modo, ha svolto la sua funzione di affiancamento decisionale dei presidi. Aspetto, questo, sempre meno incisivo di recente, tuttavia sussistono anche oggi molte delle funzioni originali.     

L’altro elemento da sottolineare è che il D. LGS. 417/74[2] chiarisce lo stato giuridico dei docenti,  garantendo l’autonomia del personale della scuola rispetto ad altri pubblici impieghi e vengono dotati di una loro specifica funzione “intesa come esplicazione essenziale dell’attività di trasmissione della cultura, di contributo alla rielaborazione di essa e di impulso alla partecipazione dei giovani a tale processo e alla formazione umana e critica della loro personalità”[3] e definisce chiaramente, in attuazione all’art. 33 della Costituzione, la libertà di insegnamento.     

Ciò che viene delineato con questa serie di provvedimenti è un’idea di scuola aperta in cui i vari attori coinvolti si confrontano e collaborano insieme portando ciascuna parte le proprie istanze per giungere ad una sintesi di scelte condivise. Lo scopo prefigurato è apertura e coinvolgimento per il bene comune che la scuola come istituzione dello stato rappresenta.     

Non meno importanti seppur di taglio maggiormente tecnico sono i chiarimenti che attengono all’orario di servizio di figure direttive ispettive e dei docenti, o alle modalità inerenti al loro reclutamento, a tal riguardo, mi sembra che allora i requisiti necessari per partecipare al concorso per direttore didattico o preside,  nomenclatura diversa per ruoli differenti, oggi confluiti tutti nella dicitura di Dirigenti Scolastici, fossero riconducibili al diverso ordine e grado degli istituti per cui si concorreva, a sottolinearne la peculiare specificità e con essa la complessità diversa a secondo del tipo di scuola. Se ne richiedeva dunque una conoscenza approfondita da docente. Oggi non è più così e nonostante sia aumentato il grado di complessità e questa modifica lungi dall’essere stata migliorativa ha, al contrario, determinato criticità che si osservano sempre più spesso, perché la conoscenza diretta della scuola in ogni suo ordine e grado come docente prima di assumerne le redini organizzative e amministrative è essenziale per poter svolgere al meglio le funzioni collegate al ruolo di capo d’istituto, ma anche l’accorpamento di istituti di scuola primaria a quelli di scuola secondaria di primo grado risponde solo ad un’esigenza di efficienza di spesa, mentre sacrifica l’efficacia dell’azione deliberante, ma soprattutto di quella didattica; tant’è vero che in molti casi i collegi docenti congiunti dei due ordini e gradi diversi riscontrano non poche difficoltà nelle scelte da fare in quanto i due si trovano, in alcuni casi, anche di fronte ad esigenze diverse e conflittuali per via dell’età anagrafica diversa degli alunni cui si riferiscono. Oltretutto non si può ignorare che il personale docente della scuola primaria, così come, di par suo, quello della secondaria di primo grado non sempre è a conoscenza delle peculiarità, necessità ed obiettivi didattici da raggiungere dalla scuola di ordine e grado diverso rispetto a quello in cui esso opera.     Infine, un altro merito dei Decreti Delegati e, precisamente il già citato DPR n. 417/74, è il riconoscimento della libertà di associazione sindacale di docenti, presidi, direttori didattici ed ispettori; il DPR n. 420/74[4], poi estende tale diritto anche al personale non docente della scuola.     

Grazie a questo corpus di norme originato dalla Legge 30 luglio 1973 n. 477[5], inoltre, fu avviata anche un’inedita stagione di finanziamenti statali dedicati all’edilizia scolastica; stagione mai ripetutasi in seguito con eguale impulso. Essi possono essere annoverati tra i più innovativi e illuminati provvedimenti legislativi in materia di istruzione. Per avere un’idea delle ricadute positive prodotte da questa lunga serie di politiche scolastiche iniziate con l’Unità d’Italia è sufficiente dare un’occhiata veloce ai numeri: nel 1871 sette italiani su dieci erano ancora analfabeti, all’inizio del secolo successivo gli analfabeti sono il 48,5%; negli anni venti del secolo scorso l’analfabetismo caratterizza ancora il 12,9% della popolazione, percentuale che flette sensibilmente nel 2001 con il 2,0% di analfabeti, passando per un 8,3% del 1961. Dal 1931 al 1991 si passa da un tasso di analfabetismo del 21% fino a scendere al 2,1%. Tuttavia, se nel 1951 il 46,3% degli italiani è alfabetizzato è comunque privo di titolo di studio; infatti il 30% è provvisto appena di licenza elementare, il 5,9% di licenza media e solo il 3,3% ha il diploma. I laureati in Italia nel 1951 sono appena l’un per cento di tutta la popolazione. Il censimento del 2001 fotografa un’Italia diversa rispetto alle aspettative: il 10% degli italiani è ancora privo di un titolo di studio, un fin troppo nutrito 25% ha frequentato solo le scuole elementari ed il 30% le scuole medie. I possessori di diplomi in Italia sono ancora un numero abbastanza esiguo: 25% e i laureati uno sparuto 7,1%. Ciò porterebbe a concludere che la spinta progressista circa l’istruzione che aveva animato la stagione immediatamente successiva al ’68 si è arenata senza più essere incisiva come si era sperato. I dati di cui sopra sono tratti dal censimento del 2001, purtroppo però non spiegano nel dettaglio come e quando l’istruzione ha smesso di essere un obiettivo da raggiungere se si osserva che il 35% è senza titolo di studio o ha appena frequentato le elementari.     

Infine, rispetto alla stagione più riformista c’è da segnalare anche un’altra pietra miliare della scuola italiana, la Legge  04 agosto 1977n. 517[6] che tra le altre cose importanti, abolisce le classi differenziali prevedendo l’integrazione progressiva degli alunni “H” nelle classi di alunni normo-dotati grazie alla previsione di docenti di sostegno per fornire loro una didattica consapevole e specializzata. Caso pressoché unico nel panorama mondiale.      Forse l’ultimo di questa serie, riguarda la scuola elementare, è la Legge 05 giugno 1990 n. 148[7] che istituisce l’organizzazione didattica per moduli offrendo anche, a scelta delle famiglie, l’opzione del tempo pieno e prolungato e introduce, infine, anche l’insegnamento della lingua straniera, sempre nelle scuole elementari[8].

– La scuola italiana dagli anni ’90 all’autonomia scolastica

Per comprendere bene la portata complessiva della trasformazione subìta dalla scuola italiana negli ultimi trent’anni bisogna mettere bene in evidenza tutti i provvedimenti legislativi che, passo dopo passo, con un processo lento e graduale quasi da sembrare impercettibile ci porta allo stato attuale. A tal fine è bene allora analizzare quei provvedimenti cruciali che portano, indiscutibilmente, l’impronta di una svolta politica epocale, quella del 1989 e comprendere come tutto successivamente prende una direzione ben diversa, si direbbe quasi opposta, all’afflato politico infuso con i decreti delegati degli anni ’70.     

Il primo fu, sicuramente, quello con cui si attribuisce personalità giuridica a tutte le scuole – non solo quindi agli istituti tecnici e professionali – assegnando autonomia amministrativa e di bilancio nella gestione economico-finanziaria con relativa responsabilità contabile[1] che, andando ad innestarsi con le successive Leggi Bassanini, completerà il processo autonomistico cui sin da quel momento è stata sottoposta la scuola. La stagione riformista che ebbe inizio proprio nella seconda metà degli anni ’90 fu propagandata come necessaria per modernizzare e razionalizzare la pubblica amministrazione e già nei primi anni di quel decennio il comparto scuola era stato complessivamente inglobato nel settore più ampio di pubblica amministrazione appunto e anche in questo caso con un approccio apparentemente indolore, anzi pubblicizzato come tagli a dei privilegi inaccettabili e sperpero di denaro per una spesa pubblica eccessiva e inefficiente.

B. Il D. LGS. 29/1993 – I docenti della scuola italiana perdono il “ruolo”

Fondamentale per comprendere l’impatto e la trasformazione implicita è indubbiamente il Dlgs. n. 29/1993[1] attraverso cui il rapporto di lavoro dei docenti delle scuole con lo stato cambia radicalmente, da una disciplina di diritto pubblico si passa ad una di natura privatistica; allo stesso modo viene modificato anche il loro stato giuridico, tant’è che è oramai improprio parlare di immissioni in ruolo in quanto il ruolo ordinario è stato trasformato in contratto a tempo indeterminato per i docenti delle scuole, mentre invece, ad esempio, lo stesso non è accaduto per i docenti universitari, né per magistrati o per le forze armate, per i quali il ruolo rimane così come non è cambiato il loro stato giuridico. Questa modifica ha avuto un impatto notevole dal punto di vista economico, realizzando paradossalmente una scala mobile a rovescio agganciando la retribuzione dei docenti della scuola al tasso d’inflazione programmato e conseguentemente abbassando i livelli stipendiali, un bel risparmio per lo stato non c’è che dire. Inoltre, per i docenti della scuola, a differenza degli altri funzionari citati prima, è stato abolito lo scatto di anzianità che indicava anche uno scatto stipendiale biennale che ora invece avviene ogni sei anni; ma non è tutto perché questo provvedimento è stato il primo importante tassello che ha introdotto anche altri aspetti inediti nella tradizione della scuola, ossia un rapporto sempre più gerarchico tra docenti e dirigenti scolastici e una competizione interna tra i vari docenti che si affannano ad effettuare attività aggiuntive per arrotondare e la cui assegnazione è, nei fatti, di esclusiva competenza dei dirigenti.     

Da quel momento in poi la strada per l’autonomia scolastica è praticamente spianata e non incontra alcuno ostacolo perché rientra in un preciso disegno politico molto più ampio che spinge, innanzitutto verso una progressiva privatizzazione di tutte le istituzioni statali e passa per un decentramento amministrativo sempre più incisivo a favore delle regioni, specie quelle che rivendicano maggiore efficienza ed efficacia, forse un tentativo di attuare un federalismo calmierato e, in terzo luogo, in direzione di un’idea di istruzione sempre più prona a soddisfare le esigenze dell’industria che convenientemente smette di fare formazione e innovazione interna[2]. Questi molteplici fattori, come vedremo, hanno effetti devastanti sulla scuola trasformandola sin da subito in azienda di tipo privatistico in cui la produttività, l’efficienza e l’efficacia sostituiscono concetti come il diritto costituzionale ad un’istruzione di qualità per tutti introducendo l’elemento competizione tra i vari istituti.     

I passaggi normativi che portano a queste conseguenze, come si è detto, o non vengono colti nella loro importanza sostanziale perché veicolati tramite una propaganda che viene accolta con gran favore dall’opinione pubblica, d’altra parte subito dopo l’ondata scandalistica della corruzione politica emersa con l’operazione di “mani pulite”, il bisogno di modernizzare e semplificare tutto ciò che veniva inglobato sotto il largo ombrello del termine onnicomprensivo di “amministrazione pubblica” era avvertito come prioritario da tutti e, dunque, quanto avveniva nella scuola fu salutato quasi unanimemente come un’operazione dovuta e persino tardiva. Oppure non se ne colse proprio la portata perché, effettivamente, i tanti risvolti negativi si sono manifestati gradualmente negli anni, eppure non è affatto un declino improvviso e repentino, anzi, e per coloro che lo hanno pazientemente perseguito, è un successo concreto che finalmente sta dando i suoi frutti. Vale perciò la pena analizzare quali sono i diversi obiettivi messi in atto in questi trenta anni, come e da chi.     

Bisogna dire subito che, sebbene la via maestra sia stata preparata e attuata inizialmente da governi di centro sinistra – che senza dubbio ha un risvolto paradossale –, è tutto l’arco politico che trasversalmente persegue lo scopo di trasformazione radicale del sistema di istruzione italiano.

Al seguente link troverete la pagina dedicata al saggio con l’indice completo e i vari link ai precedenti capitoli fin qui pubblicati.

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