Oggi è stato l’ultimo giorno di scuola in tutta Italia; è tempo di scrutini, di valutazione ed esiti, non sempre brillanti per gli studenti con cittadinanza non italiana. La responsabilità è tutta loro? Proviamo a capire.
Gli studenti con cittadinanza non italiana presenti nel nostro paese sono 876.033 e si calcola che a breve possano superare il milione; infatti, i numeri sono in crescita, dopo una lieve flessione registrata durante gli anni della pandemia.
Dati alla mano sono proprio questi gli studenti italiani che ingrossano le statistiche relative alla dispersione scolastica. Gli studenti con cittadinanza non italiana.

Molti di questi studenti con cittadinanza non italiana sono neoarrivati in Italia (NAI), quindi, non italofoni oppure sono bilingui. Le difficoltà che ostacolano il loro rendimento scolastico sono di ordine linguistico. Sempre i dati ci dicono che anche se scolarizzati in Italia sin dall’infanzia la maggior parte di essi a casa parla la lingua del paese di origine dei genitori, la loro esposizione alla lingua italiana, pertanto, avviene prevalentemente in ambiente scolastico. Inoltre, anche tra coetanei appartenenti alla stessa comunità non italiana, non di rado, preferiscono esprimersi nella lingua dei genitori per consolidare un’identità che avvertono ancora come incerta e di cui sono alla ricerca costante.
Sebbene si esprimano correttamente e con grande spontaneità nella lingua della comunicazione, continuano comunque ad avere delle difficoltà significative nella lingua dello studio e fanno fatica ad acquisire il lessico settoriale delle varie materie di studio.

Tutto ciò fa sì che queste difficoltà vengano interpretate come svogliatezza, mancanza di impegno nello studio; in realtà, a fronte di impegno e volontà si scontrano con degli ostacoli oggettivi (a casa non possono ricevere alcun aiuto perché i genitori sono, essi stessi, in difficoltà con la lingua) che loro non hanno né la maturità, né l’esperienza per comprendere o individuare data la loro giovane età; in conseguenza di ciò la prima e più immediata reazione da parte loro è la frustrazione per i risultati non rispondenti alle loro aspettative. Frustrazione che, anche a causa della loro giovane età, si traduce in moltissimi casi, in contrarietà che si manifesta anche con comportamenti aggressivi fino a giungere alla resa e, quindi, all’abbandono della scuola.

Spesso purtroppo nemmeno i docenti sono in grado di comprendere che il loro rendimento scolastico scarso, insufficiente o non del tutto sufficiente in alcune materie non è riconducibile alla loro mancanza di volontà e che, al contrario, andrebbero aiutati ad acquisire una buona padronanza linguistica soprattutto nella lingua dello studio che passa solo attraverso le lezioni in classe e i libri di testo, in quanto, come si è detto, l’esposizione alla lingua italiana è circoscritta solo al contesto scolastico, pertanto non possono avvalersi di quell’aiuto che ai nativi viene dalla famiglia e dalla società in cui vivono.
Tra i tanti fattori che inibiscono la loro piena e completa acquisizione della padronanza linguistica concorre, per quanto riguarda le scuole secondarie di secondo grado, anche la loro altissima concentrazione in istituti tecnici e professionali. In alcuni casi così alta da rappresentare involontariamente una sorta di ghettizzazione di stato. Se a ciò si aggiunge l’affollamento delle classi il risultato non può che essere negativo per studenti e corpo docenti.
Individuare precocemente il disagio linguistico e istituire in tutti gli istituti scolastici di ogni ordine e grado dei corsi di italiano L2 è l’unica strada percorribile per ridimensionare il fenomeno e garantire anche a questi studenti il diritto allo studio. Oltretutto, la normativa consente di predisporre anche per loro un Piano Didattico Personalizzato (PDP) per studenti con bisogni educativi speciali (BES) al fine di dare loro gli strumenti e il tempo necessario per superare il disagio linguistico. Un disagio che senza l’aiuto di adulti competenti, i docenti appunto, non sono in grado di superare e di superare senza grandi traumi.
È già un trauma emotivo e psicologico per loro trovarsi in un paese straniero e integrarsi, senza che si debba aggiungere anche quello scolastico; seppur vero che le scuole italiane non sono effettivamente messe in condizioni di affrontare la sfida con mezzi, strumenti e personale adeguati, non si può nemmeno continuare a far sì che chi di competenza, la politica, persista nell’ignorare la questione come si è fatto finora.
E’ invece fondamentale che si porti all’attenzione di tutti gli attori coinvolti: docenti che dovrebbero sensibilizzare le dirigenze che, a loro volta, portino la questione nei vari Uffici Scolastici Provinciali e poi Regionali, fino ad arrivare al ministero usando i mezzi a loro disposizione, le reti di scuole, ad esempio, o anche predisponendo dei protocolli interni per l’accoglienza e l’aiuto necessario da garantire a tutti gli studenti, compresi quelli con cittadinanza non italiana, evitando che la valutazione agli scrutini sia di fatto un atto discriminatorio a tutti gli effetti.
Perché è senza dubbio compito della scuola favorire ciò che dovrebbe essere la priorità per tutti, far in modo che si sentano a casa loro il prima possibile e non estranei. Le difficoltà che anche l’istituzione scolastica deve affrontare sono molte e varie, cionondimeno è compito della scuola che, come disse Calamandrei, è organo costituzionale e il primo impatto che gli studenti con cittadinanza non italiana sperimentano con un’istituzione che ha il dovere di prenderli in carico per contribuire alla loro crescita consapevole al fine di farli diventare cittadini istruiti e consapevoli.
© L. R. Capuana
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