IL TRIONFO DEL NEOLIBERISMO – I SOLDI DEL PNRR E LE COMPETENZE NON COGNITIVE

Lo scorso 8 giugno alla camera dei deputati l’intergruppo parlamentare per la sussidiarietà ha tenuto un seminario sulla proposta di legge “Lo sviluppo delle competenze non cognitive”. Al seguente link si può seguire la registrazione del seminario.

Contrariamente a quanto riporta il programma di cui sopra, i lavori sono stati introdotti dall’Onorevole Maurizio Lupi.

Competenze non cognitive e sussidiarietà

Prima di entrare nel merito del seminario e di quanto discusso è utile capire cosa si intende per competenze non cognitive e sussidiarietà. La definizione di caratteristiche non cognitive (caratteristiche a me sembra la traduzione più adatta anziché competenze, ma tant’è, la mistificazione della realtà passa anche attraverso la distorsione del lessico) che riporto sotto è tratta da un sito americano di consulenza per le aziende, il che già fa riflettere.

Cognitive vs. noncognitive skills: What’s the difference?

Cognitive skills involve conscious intellectual effort, such as thinking, reasoning, or remembering. ACT WorkKeys assessments that measure these skills require examinees to demonstrate their capabilities in areas including reading and mathematics.

Noncognitive or “soft skills” are related to motivation, integrity, and interpersonal interaction. They may also involve intellect, but more indirectly and less consciously than cognitive skills. Soft skills are associated with an individual’s personality, temperament, and attitudes. For virtually all jobs, a worker needs the soft skills associated with working well with other people and functioning effectively in a work
environment. The ACT WorkKeys noncognitive assessments measure the soft skills that are considered essential in many occupations.

Cognitive and noncognitive skills (act.org)ACT Workforce Solutions | ACT

Intanto possiamo affermare che le due espressioni: “noncognitive skills” o “soft skills” esprimono il medesimo concetto, ossia aspetti caratteriali (in inglese temperament – afferenti al patrimonio genetico ed ereditario della persona) e aspetti della personalità (in inglese personality – acquisiti nel tempo e determinati dall’ambiente famigliare e dal contesto culturale in cui la persona cresce).

Essi derivano dalla teoria psicologica dei Big Five di Robert R. McCrae e Paul T. (1993).

Di Anna Tunikova for peats.de and wikipedia – https://peats.de/article/big-five-die-personlichkeit-in-funf-dimensionen, CC BY 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=66464543

Per spiegare meglio la rappresentazione grafica dell’immagine sopra riportata, si può dire che alla voce “openess” corrisponde una dicotomia tra l’essere creativo e curioso vs l’essere costante/coerente e cauto; alla voce “conscientious” efficiente ed organizzato vs stravagante o incurante/negligente; a “extraversion”: estroverso ed energico vs solitario e riservato; a “agreeableness”: socievole/compassionevole vs critico e razionale; infine a “neuroticism”: sensibile/ansioso vs resiliente/più sicuro di sé.

A ben vedere nessuna di queste contrapposizioni ha di per sé una connotazione del tutto negativa.

A ciò bisogna anche aggiungere che secondo questo schema il creativo e curioso sarà più ben disposto e motivato allo studio, nonché essendo coscienzioso, efficiente e ben organizzato sarà anche più capace di acquisire metodo nello studio, sarà capace di mantenere la concentrazione e l’attenzione durante le lezioni a cui farà in modo di essere presente con costanza; così come chi è socievole e compassionevole sarà più portato all’empatia e quindi, magari, anche più disposto ad aiutare gli altri.

Si tratta però di supposizioni e molto dipende anche dalle circostanze.

Ad ogni modo si tratta, appunto, da un lato di tratti caratteriali ereditari, determinati dal nostro patrimonio genetico; dall’altro sono invece aspetti della personalità sviluppati attraverso la trasmissione di valori e principi provenienti dall’ambito famigliare e dal contesto culturale in cui si cresce e si matura. Non a caso vi sono ricerche che dimostrano che certi tratti caratteriali come l’essere estroversi e brillanti sono considerati in modo positivo in culture come quella americana, mentre per asiatici è più apprezzato chi è riservato e discreto. Ciò per sottolineare che non si può parlare di qualità universalmente intese come tali e che, invece, la cultura e l’ambiente di provenienza sono essenziali per lo sviluppo della personalità, così come è il contesto che determina ciò che viene ritenuto “conforme” alla cultura e alle tradizioni e ciò che non lo è.

Competenze non cognitive: dogma ideologico o constatazioni empiriche?

Secondo i relatori del seminario dell’intergruppo parlamentare per la sussidiarietà e i promotori di questa proposta legge, ma non solo secondo loro ovviamente, esistono invece delle strette correlazioni tra queste caratteristiche caratteriali non cognitive (noncognitive skills) ed il successo scolastico prima e professionale dopo e poiché, tra l’altro, ritengono che sarebbe altresì individuabile una correlazione tra l’acquisizione di queste competenze non cognitive e lo sviluppo economico del paese, ritengono anche auspicabile che la loro acquisizione venga sviluppata nelle aule scolastiche adottando metodi didattici “innovativi”.

Ma è veramente così? Che dati empirici esistono a sostegno di questa teoria?

All’estero se ne discute con onestà intellettuale

Il dibattito all’estero è alquanto vivace e anche intellettualmente onesto, infatti, uno studio condotto dalla John Hopkins University dimostra che non si è ancora arrivati a comprendere come effettivamente mettere in relazione l’attività didattica attuata con metodi specifici per accrescere negli studenti queste competenze non cognitive e allo stesso tempo fornire agli studenti i necessari strumenti cognitivi attraverso i saperi disciplinari per decodificare autonomamente la conoscenza.

Jackson nel 2012 asserisce che sebbene i docenti abbiano un ruolo importante nello sviluppo di queste competenze non cognitive, il meccanismo secondo il quale ciò avviene è attualmente sconosciuto:

(Jackson 2012)…the precise mechanism of how teachers affect noncognitive skills is unknown,

noncognitiveskillsmastheadfinal.pdf (jhu.edu) – p. 2

Inoltre Blazar e Kraft nel 2015 rilevano che la correlazione tra la capacità del docente sulle acquisizioni di saperi in matematica e il suo effetto sulle capacità emotive dello studente in riferimento alla propria autoefficacia in matematica è 0.19. Questa debole relazione dimostra che i docenti che riescono a migliorare le competenze non cognitive degli studenti non sono necessariamente altrettanto capaci nel riuscire a migliorare le loro conoscenze cognitive.

Blazar and Kraft (2015) found that the correlation between a teacher’s effect on students’ math achievement and the same teacher’s effect on students’ reported feelings of self-efficacy in math is only 0.19. This weak relationship means that teachers who are effective in improving noncognitive skills are not necessarily as effective in improving cognitive skills.

noncognitiveskillsmastheadfinal.pdf (jhu.edu) – p. 3

E ancora un altro studio chiarisce che seppure sia importante l’impatto che le competenze non cognitive hanno sui risultati scolastici, di fatto, non vi sono ancora prove empiriche che ne attestano una loro relazione diretta; l’altro aspetto da considerare è che queste ricerche non tengono ancora conto dei fattori che potrebbero potenzialmente condizionare lo sviluppo di queste competenze non cognitive, come ad esempio la provenienza etnica/culturale o socio-economica, e la loro correlazione con i risultati scolastici degli studenti.

Various models of noncognitive factors and their relationships with academic performance have been offered throughout the years (e.g., CASEL, n.d.; Jones & Bouffard,2012) without sufficient empirical studies testing these models. Another gap in the research involves the study of potential influencing factors (e.g., SES and race/ethnicity) on the development of noncognitive factors in relation to academic performance (Durlak, Weissberg, Dymnicki, Taylor, & Schellinger, 2011; Hoffman, 2009; Jones & Bouffard, 2012).

Relationships Among Noncognitive Factors and Academic Performance: Testing the University of Chicago Consortium on School Research Model – Dana Wanzer, Elyse Postlewaite, Nazanin Zargarpour, 2019 (sagepub.com)

In Italia se ne discute con certezza fideistica

Eppure il prof. Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, durante il suo intervento nel corso del seminario ha presentato uno studio effettuato in alcune scuole del Trentino che, a suo dire, dimostra il contrario.

I principali ambiti in cui si realizzerà la ricerca sono i seguenti: la sintesi della letteratura di ambito psicologico, la costruzione di strumenti di misura quantitativi in base a tale review, la ricerca quantitativa a livello studente, la ricerca-azione per il potenziamento delle pratiche curricolari di sviluppo delle Competenze Non Cognitive, un approfondimento sulle basi neurali di tali competenze

2019 03 12 05 Ricerca Trento Rapporto intermedio.pdf (orientamentoirreer.it) – Introduzione

E’ pur vero però che nella stessa ricerca si evidenzia che nonostante tutto non vi è un reale rapporto di causa ed effetto tra il metodo didattico adottato e lo sviluppo nei discenti delle competenze non cognitive:

D. Causalità
D1. Nessuna causalità
Gli studi che valutano i programmi educativi offerti ai ragazzi non stabiliscono relazioni di causa-effetto, cioè non riescono a stabilire che un certo programma X causi l’effetto Y osservato. Gli studi
evidenziano solo rapporti di correlazione tra i trattamenti e i loro effetti.

2019 03 12 05 Ricerca Trento Rapporto intermedio.pdf (orientamentoirreer.it)

Inoltre, è interessante notare che in questa ricerca sono stati utilizzati i dati anagrafici degli studenti raccolti durante le prove INVALSI che sono stati poi agganciati (grazie al codice identificativo SIDI) ai risultati (rilevazione della quinta elementare dell’anno scolastico 2014-15) dei loro punteggi dei test di matematica e italiano e le informazioni sul loro ambiente sociale di provenienza incrociandoli con i dati raccolti dal questionario sottoposto agli studenti per lo sviluppo delle competenze non cognitive allo scopo di mantenere contestualmente il paragone con un analogo numero di domande già poste nel questionario compilato tre anni prima. In questo modo si ha una raccolta di dati comprendenti anche le attività extrascolastiche, la qualità di insegnamento e l’analisi delle competenze non cognitive e cognitive dello studente.

La domanda che mi sovviene è: le informazioni anagrafiche degli studenti tramite la compilazione del questionario INVALSI non dovevano restare anonimi? Ma questa è un’altra storia.

Questo più o meno il quadro relativo alle competenze non cognitive, quanto ai metodi didattici (alcuni esempi si possono trovare cliccando sul link) che dovrebbe favorire il loro sviluppo negli studenti, sono sempre le stesse da una ventina d’anni a questa parte. Una serie di metodi definiti innovativi, ma se sono innovativi approcci didattici risalenti agli anni ’30 del secolo scorso e provenienti dall’altra parte dell’oceano, beh che dire, siamo messi un po’ male.

La sussidiarietà: volontariato e beneficenza si sostituiscono allo Stato

Per quanto invece riguarda la sussidiarietà, di seguito riporto delle immagini raccolte in Internet che danno conto e dell’aspetto tecnico del termine e di quello che viene desunto da importanti fondazioni e associazioni che hanno strette relazioni di consulenze con il Ministero dell’Istruzione.

Google Search

Per quanto riguarda la Fondazione per la Sussidiarietà ispirata per iniziativa della Compagnia delle Opere, ente morale riconosciuto, e dell’Associazione San Tommaso D’Aquino è fondata, nel 2002, e presieduta da Giorgio Vittadini, professore di Statistica all’Università Statale di Milano-Bicocca, nonché curatore del libro Viaggio nelle Character Skills – Persone, relazioni, valori (Società editrice Il Mulino) è significativa la seguente definizione contenuta alla voce “Chi siamo” del sito:

La sussidiarietà è un principio di organizzazione sociale che riguarda i rapporti tra istituzioni, formazioni sociali e cittadini. Afferma la priorità delle iniziative che nascono “dal basso” – dalle persone e dai gruppi sociali – per la realizzazione del bene comune e impone ai livelli superiori di non sostituirsi a quelli inferiori, ma di sostenerli e svilupparli.

Sussidiarietà: un seme per lo sviluppo – Fondazione per la Sussidiarietà (sussidiarieta.net)

E’ interessante notare quale sia la missione che si prefigge tale fondazione:

Sussidiarietà: un seme per lo sviluppo – Fondazione per la Sussidiarietà (sussidiarieta.net)

Questo è dunque l’orizzonte culturale entro cui si muove la Fondazione per la Sussidiarietà che vede tra i promotori e i partecipanti attivi, tra gli altri l’Onorevole Lupi al pari dell’Onorevole Aprea. Entrambi vicini a Comunione e Liberazione, come del resto la Fondazione stessa, ed entrambi convinti sostenitori della proposta di legge cui il seminario in questione è dedicato.

Altrettanto interessante è sapere chi è un altro dei relatori, al fine di capire chi sono i soggetti coinvolti, ovvero Ludovico Albert presidente della Fondazione per la Scuola, dalla pagina di presentazione nel sito si legge:

Presentazione | Fondazione per la Scuola (fondazionescuola.it)

Sia la Fondazione per la Sussidiarietà, sia quella per la Scuola fanno un’operazione assolutamente legittima, per certi versi anche lodevole, tuttavia perseguono specifici interessi, assolutamente legittimi appunto. Ciò che però lascia perplessi è l’uso strumentale che fanno del lessico stravolgendone il significato. Che bisogno c’è se i loro propositi sono in buona fede? Sorge il dubbio allora che dietro la patina di benevolenza nei confronti del Paese e dei suoi bisogni tra i loro scopi ci sia quello di appropriarsi di fondi pubblici per gestire loro, in forma privatistica, un settore del Welfare, l’istruzione, come già è stato fatto ampiamente per quello della sanità. Si fa leva sull’emotività dell’opinione pubblica, prima delegittimando l’operato dello Stato cui si mettono in rilievo le deficienze, le mancanze, lo spreco di denaro pubblico; si prosegue mettendo l’accento sull’importanza di comunità, del territorio e di ciò che il singolo individuo può fare grazie, ad esempio, al volontariato e alla beneficenza; fatta questa operazione, si passa allo scopo principale che è trasferire al settore privato ciò che dovrebbe essere squisita competenza statale: obblighi e doveri nei confronti dei cittadini tramite investimenti a lungo termine per sviluppare un sistema efficiente di ammortizzatori sociali e politiche per l’attuazione dei diritti sociali, quindi attraverso fondi pubblici derivanti dalle tasse. Così facendo, lo Stato viene gradualmente esautorato di tutte le sue funzioni che passano in mano ai privati (che devono produrre profitti, è bene sempre ricordarlo), mentre la responsabilità dello Stato viene scaricata sulla responsabilità individuale o sociale. Da qui ad arrivare a scuole private e pubbliche in concorrenza tra loro, ad esternalizzare tutti i servizi pubblici il passo è breve, ma una volta fatto il salto, non si torna indietro e se quanto avvenuto durante la pandemia con gli ospedali pubblici in sofferenza per i tagli subiti e, quindi, la difficoltà estrema di garantire cure e assistenze adeguate a tutti i cittadini affetti dal virus non è servito a far comprendere a quali conseguenze andremmo incontro se il settore pubblico viene svenduto al privato, non so davvero cosa possa ancora servire per farci aprire gli occhi.

Più che scuola dell’innovazione sarebbe il caso di parlare di scuola reazionaria

Ecco, mi pare che il quadro complessivo sia piuttosto chiaro. Così come appare abbastanza chiaro che l’idea di scuola promossa anche attraverso la proposta di legge discussa nel seminario in questione sia riconducibile al pensiero unico finora perseguito e in piena continuità con quanto si è fatto negli ultimi decenni.

La relazione presentata dal ministro Bianchi durante questo seminario ne è una conferma sin dalle prime battute, quali ad esempio: “economia dell’istruzione”, “misurabilità di tempo e produttività”, cioè, secondo quanto detto dal ministro, è importante poter misurare quanto tempo sia necessario per apprendere e poi produrre e come le cosiddette non cognitive skills o character skills – espressioni usate dal ministro come sinonimi ma che in realtà non lo sono – siano fondamentali per assicurare il successo non solo dal punto di vista scolastico ma, anche nella vita professionale di tutti. Il concetto di capitale umano (si segnala che l’espressione fu resa popolare da alcuni economisti della Scuola di Chicago) è altresì ribadito più volte nel discorso fatto dal ministro, l’individuo come elemento inquadrato nello sviluppo economico del paese. Tuttavia, non l’individuo in quanto persona che ha diritto a perseguire il proprio benessere interiore, piuttosto l’individuo che deve essere plasmato sin dalla più tenera età a soddisfare i bisogni delle imprese affinché lo sviluppo economico delle stesse sia un obiettivo comune (meno comuni però i profitti). Un altro aspetto su cui si è concentrato il ministro è stato quello relativo alla formazione dei docenti per la realizzazione di un nuovo modello didattico che persegua lo sviluppo di queste noncognitive skill, di fatto però mai realmente esplicitate dal ministro, il quale si è limitato a collegarle alle teorie economiche di Adam Smith che nel capitale umano identifica anche l’accumulazione di tecniche capaci di sviluppare la manualità (dexterity è il termine utilizzato dal ministro) e l’efficienza dinamica che interpreta come l’assunto dell’imparare ad imparare facendo. Ecco perché, secondo l’opinione del ministro, la scuola “affettuosa” può lasciare spazio allo sviluppo delle character skill utili a costruire quella scuola che l’OCSE evidenzia come necessaria per lo sviluppo economico del Paese, una scuola inclusiva che porti tutti gli studenti verso l’alto per scongiurare il rischio che paura e invidia diventino il collante di un Paese con un sistema di istruzione (educazione è il termine usato dal ministro) divaricato tra una formazione di basso livello che genera precariato nel lavoro con persone poco istruite, personale non specializzato e senza tutele ed un sistema alto, mentre la scuola deve portare tutti verso l’alto (cito a memoria, ma è facilmente verificabile seguendo il video del seminario), un ultimo aspetto evidenziato da Bianchi è che la formazione deve proiettarsi su tutta la vita perciò si deve porre l’accento su gruppi di apprendimento che siano il nuovo orizzonte di una scuola strutturata diversamente, un progetto questo che, il ministro ritiene debba coinvolgere anche l’università cambiando il suo assetto da quello fondato sulle discipline e le conoscenze per passare ad uno di conoscenze integrate che privilegi lo sviluppo delle character skill (inglesismo usato con ossessiva insistenza). Ho tentato di fare una sintesi benché, con tutta franchezza e sicuramente per mio limite, la comprensione della relazione non è stata proprio facile.

Molto più chiara la posizione dall’Onorevole Aprea, forse perché legge un testo – velocemente, questo sì – e un testo scritto è strutturato in modo più logico di un discorso fatto a braccio come quello del Ministro. Cosa dice, dunque, l’On. Aprea? Sostanzialmente fa un discorso trito e ritrito, ovvero ha affermato in modo apodittico che la scuola italiana è obsoleta in quanto ancora troppo legata alla trasmissione dei saperi disciplinari ed è invece necessario, a suo parere, passare dalla cultura del sapere al sistema delle competenze trasversali perché, continua, queste garantiscono la crescita e lo sviluppo economico e quindi sono fondamentali per modernizzare le imprese rendendole più competitive. Perciò, ci dice l’On. Aprea, bisogna sfruttare la tempesta perfetta provocata dalla pandemia e usare i fondi del PNRR per investire, ad esempio, nella costruzione di ambienti di apprendimento tecnologicamente avanzati. Ne consegue pertanto, secondo questa visione, che non servono più le materie, serve al contrario insegnare agli studenti come reperire autonomamente le informazioni di cui necessitano per costruire loro i contenuti, quindi, è da superare anche il gruppo classe introducendo un sistema per cui il discente sceglie il “corso” a lui più congeniale da seguire in cui si può trovare all’interno con gruppi di studenti di età diverse.

Non può non sfuggire dunque che il presunto disegno ri-formatore paventato da Bianchi in molte sue dichiarazioni pubbliche e insinuato da alcune affermazioni sopra riportate è sostanzialmente reazionario.

In definitiva si postula l’eliminazione delle materie di studio, del gruppo classe oltre alla fine dei diversi indirizzi di studio per la scuola secondaria di secondo grado e un’unica scuola secondaria sulla falsariga di quella anglo-americana con l’aggiunta, per altro, del sistema duale tedesco imposto a tutti gli studenti, ovvero la già alternanza scuola-lavoro di cui l’On. Toccafondi si dichiara inguaribile nostalgico. Un ritorno al passato più buio, quello dell’avviamento professionale. Da qui alla riduzione di un anno della scuola secondaria di secondo grado, all’abolizione del valore legale del titolo di studio, (per la somma gioia dell’Eduscopio della Fondazione Agnelli che potrà fare classifiche tra scuole come se non ci fosse un domani) e il trasferimento della gestione del sistema di istruzione dallo stato alle regioni (Autonomia differenziata, anche questa è una vecchia idea dell’On. Aprea) e, per concludere, l’introduzione degli investimenti privati affinché siano le aziende ad imporre un curricolo scolastico di loro gradimento. Insomma a tutti gli effetti la fine del sistema di istruzione italiano.

Gli strumenti usati cambiano i contenuti

In merito alla questione relativa alla possibilità che siano gli studenti a costruire i contenuti del loro sapere attraverso l’uso della tecnologia, alquanto chiarificatore ciò che afferma la professoressa Teresa Numerico, docente di Logica e Filosofia della Scienza all’Università di Roma Tre. Nel corso di un webinar dal titolo “LO STATO DELLE COSE. Produzione, riproduzione e uso dei saperi nell’era digitale” (di grande respiro che consiglio vivamente) Numerico ha spiegato che i contenuti cambiano a seconda degli strumenti usati e che gli algoritmi sviluppati dalle multinazionali che ne detengono il controllo determinano quali contenuti fornire a seguito delle ricerche effettuate dagli utenti, perciò è fondamentale, dice, che il controllo rimanga intatto e non delegato a questi colossi del hi-tech i quali hanno precisi interessi oltre che economici anche politici. Inoltre, la professoressa Numerico, mette in guardia su un altro aspetto essenziale tanto da chiedere e chiedersi cosa accadrebbe se decidessimo di demandare alle macchine la capacità di comprendere un testo, di effettuare una sintesi e smettessimo di sviluppare queste abilità a scuola? Cosa accadrebbe se si rinunciasse a sviluppare nei discenti la capacità di astrazione o di costruire schemi? Quali conseguenze cognitive e intellettive ne deriverebbero? Ma forse la domanda più inquietante è se sia davvero un bene estromettere l’essere umano dalla produzione di conoscenza?

Disuguaglianze sociali e competenze non cognitive, o magari più investimenti?

L’Onorevole Lattanzio, prima appartenente al movimento cinque stelle, ora PD, da parte sua ci tiene a precisare che questa proposta di legge è volta a ridurre le disuguaglianze sociali, ma vediamo se è proprio così.

Virginia Woolf nel suo saggio, Una stanza tutta per sé (1929), evidenzia la disparità di trattamento riservata alle istituzioni universitarie femminili del tempo rispetto a quelle maschili facendo un confronto molto dettagliato e sostiene che quelle maschili sono privilegiate perché ottengono molte più risorse finanziare volte a garantire ai loro studenti quell’agio e quel benessere psico-fisico indispensabile per favorire la concentrazione allo studio e lo sviluppo intellettuale. Tant’è che le università maschili, osserva, contrariamente a quelle femminili, sono dotate di strutture e attrezzature di altissimo livello, sale studio e biblioteche arredate lussuosamente, ricche di volumi contenenti il meglio della produzione culturale del suo paese, anche gli spazi ricreativi e quelli destinati all’attività fisica e sportiva rispecchiano appieno lo spirito del motto latino mens sana in corpore sano, financo la mensa, in questi luoghi sacri della cultura anglosassone, con i suoi cibi raffinati e abbondanti e i vini e liquori pregiati disponili senza limiti stanno a sottolineare l’importanza assegnata all’istruzione degli uomini che le frequentano; gli uomini che saranno protagonisti del futuro del Paese, gli uomini ricchi e potenti della classe dirigente. Alle università riservate alle donne del suo tempo nulla di tutto ciò è concesso, i luoghi sono spartani, il cibo frugale e di vini e liquori neanche l’ombra. Woolf nel suo saggio persegue lo scopo, per altro brillantemente conseguito, di mostrare la discriminazione di genere mettendo a confronto queste due facce della stessa medaglia – l’istruzione riservata alle donne e quella per gli uomini – e concludendo che, quindi, le donne producono una qualità culturale inferiore perché le condizioni e opportunità loro riservate sono da sempre di qualità inferiore ne consegue, senza alcun dubbio, che non è la qualità intellettuale delle donne a non essere all’altezza di quella maschile, è invece l’investimento iniziale destinato all’istruzione femminile decisamente più scarso a condizionarne negativamente il risultato.

Se applichiamo questo ragionamento di Woolf al nostro sistema di istruzione in senso lato non si può non constatare che cambiando i soggetti (maschi vs femmine con classi abbienti vs classi subalterne) si giunge alle medesime conclusioni. Pertanto al fine di eliminare le disuguaglianze sociali e la dispersione scolastica la soluzione non è data semplicemente sviluppando le competenze non cognitive dell’individuo attraverso l’adozione di metodi didattici “innovativi” (learning by doing – problem solving – observing experience – cooperative learning etc. risalenti alla prima metà del XX sec.) mentre dall’altro lato si sacrificano la conoscenza, il sapere, i contenuti disciplinari per favorire invece le capacità organizzative, l’efficienza fattuale, l’empatia verso il prossimo, la buona disposizione d’animo, la propensione personale alla guida (leadership) e all’assunzione di responsabilità degli studenti che afferiscono all’indole, alle attitudini personale degli individui. E del resto non è affatto una novità rivoluzionaria che l’apprendimento è alimentato dal fuoco sacro della sete di sapere che è, a sua volta, germinato dall’emozione adrenalinica, dal sentimento orgasmico generato dalla curiosità e che questi sono nutriti dalla speciale relazione che viene ad instaurarsi tra maestro e allievo; quindi è cosa nota che gli aspetti non cognitivi del carattere influenzano quelli cognitivi, ma essi attengono appunto alla personalità e sebbene si possano migliorare e potenziare quelli che si considerano punti di forza e si possono correggere parimenti quelli che si ritengono essere difetti; allo stesso tempo non è concentrando tutta l’attività didattica a scuola solo su questi aspetti caratteriali che si migliora la qualità dell’istruzione, al contrario, è solo affrontando concretamente le disuguaglianze socio-economiche, geografiche e culturali che esse possono essere superate.

Ciò vuol dire, come ci ricorda Woolf, incrementare l’investimento iniziale da parte dello Stato per fornire a tutti pari condizioni e opportunità di partenza dando attuazione, tra l’altro, all’art. 3 della Costituzione.

E’ solo attraverso il connubio tra trasmissione del sapere e sviluppo personale dell’individuo (due aspetti inscindibili della persona) che la scuola può assolvere pienamente al suo ruolo: emancipare la persona.

© L. R. Capuana

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